di Giovanni Spadolini
Roma, 9 giugno 1889, Campo de’ Fiori. La parabola dell’anticlericalismo, iniziata con l’assalto alla salma di Pio IX otto anni prima, sembra destinata a toccare il suo “acme”. Si sta per inaugurare, là dove il rogo arse, il monumento a Giordano Bruno, il filosofo che rappresenta il simbolo vivente, e sia pure deformato ed incompreso, dell’anticlericalismo. Invano, per oltre un anno, l’Unione romana di indirizzo clerico-moderato si è opposta all’elevazione della statua, definendola come un “sacrilego attentato alla purezza dell’Urbe”. La prevalenza delle forze radicali e l’omaggio allo spirito dei tempi hanno finalmente consentito quella che appare come una prova di forza del laicismo e della Massoneria, un’autentica sfida al “Papa prigioniero”.
Intorno al monumento ideato dal gran maestro della Massoneria, Ettore Ferrari, intorno alla lapide dettata dal filosofo del radicalismo Giovanni Bovio, sono convenuti tutti i rappresentanti della politica e della cultura italiana. Il positivismo è presente attraverso l’oratore ufficiale Gaetano Trezza e il senatore Moleschott; oltre mille labari massonici garriscono al vento; tutte le università italiane portano il loro omaggio; i vessilli delle società operaie si alternano agli stemmi dei municipi; Ernesto Renan ha inviato da Parigi il suo telegramma di adesione.
Due bandiere con l’effigie di Satana aprono il corteo, che si snoda dall’Esedra al centro di Roma, al suono degli inni di Garibaldi e Mameli e della Marsigliese, sullo sfondo di quella che agli arguti cronisti romani appare come “la processione dei brunisti”. Il sindaco Guiccioli, che è pur un moderato, esalta “il trionfo dell’ideale” ed assume il solenne impegno di sottrarre la statua a tutti gli sfregi e a tutte le provocazioni clericali. Un contemporaneo racconta che in quello stesso giorno “il Papa era tutto il dì in abiti pontificali: nella sua cappella era esposto il Santissimo, come se il popolaccio dovesse invadere da un momento all’altro il Vaticano per assassinarlo. Attorno a lui era riunita una parte del corpo diplomatico: l’ambasciatore di Francia, fra gli altri, quasi a sua difesa”.
Morte allo Spirito Santo: fu il commento degli anticlericali livornesi il 22 giugno, e Morte ai preti fu il grido di tutta l’Italia radicale, garibaldina e massonica, che si specchiò nella statua del Campo de’ Fiori, ammonimento ed esempio del “secolo divinato”. Morte a Leone XIII: si gridò pure in qualche comizio di seguaci di Lucifero (di quel Lucifero che aveva ispirato l’ode di Carducci e il poema di Rapisardi); ed il Papa, senza perdersi d’animo, senza scomporsi, rispose che il monumento impuri perditique hominis, all’uomo empio e perduto, non avrebbe scalfito la rocca della Chiesa cattolica, ben ferma oltre le aggressioni dei singoli e dei capi.
Ma un grido, in quelle violente manifestazioni pro-Giordano Bruno, assume fra tutti un particolare significato; ed è il grido di Viva Crispi, che si accompagna quasi dovunque agli urli di violenta e di vendetta. Viva Crispi. Per la prima volta un presidente del Consiglio in carica è fatto segno all’omaggio dei gruppi di punta dell’opposizione, dei nuclei più accesi dell’intransigenza radicale e democratica. Il fatto è che in Crispi tutti i “brunisti” d’Italia si riconoscono come in uno dei loro, come nel più rappresentativo esponente di quell’Italia che ha fatto della guerra al Papato la sua stessa ragion d’essere, la sua segreta molla di vita.
Il gran dignitario massonico, l’antico compagno di Garibaldi, l’amico lontano di Mazzini appare come l’interprete più degno e conseguente dell’Italia nazionale contro l’Italia cattolica, l’unico capo di governo capace di contrapporre la Roma laica e monarchica alla Roma sacerdotale e jeratica (così come suonava un suo discorso a Palermo sul finire del 1889).
Crispi è l’uomo che si è opposto alla legge delle Guarentigie; è l’uomo che ha chiesto più volte la riduzione della Chiesa nell’ambito del diritto comune; è l’uomo che ha rotto con Depretis in nome di un più vigoroso indirizzo di politica ecclesiastica; è l’uomo che ha fondato la Pentarchia al motto “il nemico principale d’Italia è il prete”; è l’uomo che, arrivato al potere, ha varato la legge sulle decime sacramentali, la repressione degli abusi dei ministri del culto e la riforma generale delle Opere pie, che corona il grande edificio legislativo della Destra storica. È l’uomo che orienta la Monarchia in senso laico e giacobino, resistendo a tutte le pressioni clericali sulla Corte; e quando nell’87 il patriarca di Venezia Agostini interviene in extremis presso Re Umberto per mitigare la legge sulle decime sacramentali, il Sovrano gli risponde con lo stesso stile del padre: che egli “affronta sicuro il giudizio di Dio, della Chiesa e della storia”. È l’uomo che dà garanzie alla Massoneria come nessun altro, che identifica la missione dello Stato con una missione di riforma laica; e non a caso il gran maestro Adriano Lemmi, nel 1888, indirizza all’ “illustre caro e venerato fratello” una lettera per plaudire alla “energica e sapiente opera” con la quale ha saputo “trasfondere i princìpi massonici di libertà e di giustizia nei movimenti e riordinamenti del consorzio civile”.
Con Crispi al potere, gli anticlericali sono sicuri che le debolezze non ci saranno, che nessuna transazione col Vaticano sarebbe possibile. L’esasperazione del “triplicismo”, le visite di Bismarck servono a neutralizzare la politica estera della Santa Sede più animosa e ambiziosa che mai. I primi passi dell’azione mediterranea sboccano nella laicizzazione delle scuole italiane in Oriente. L’Africa, ad un certo punto, si presenta come il “mito” mazziniano capace di fronteggiare l’universalismo cattolico.
Ma Crispi non piace solo per questo. Male o bene, l’Italia anticlericale intuisce la grandezza di Leone XIII, sente che quella politica geniale, ardita, talvolta pur contraddittoria, di “iniziativa” cattolica pone alla terza Italia problemi ben più gravi e difficili di quelli che erano scaturiti dalla solitaria e un po’ malinconica e accorata intransigenza dell’ultimo Pio IX. È per resistere al fascino di Leone XIII che l’Italia laica si esalta in Crispi.
Solo il “novello Procida” glorificato da Carducci è in grado di opporsi alla figura bianca di rigido levita cantata da Gaetano Negri; solo il Cesare Bronte di D’Annunzio può ergersi di fronte al mite schiavo di Dio che impressionerà Pascoli; solo gli occhi dell’ultimo condottiero che commuoveranno Oriani possono guardare fissi in quegli occhi ammirabili dal nero lucente dei diamanti neri, di uno splendore, di una forza che aprirebbe gli animi, gli occhi di Leone XIII che avevano suggestionato perfino Emilio Zola.
Il vecchio “giacobino” è l’unico che può competere col Pontefice dalle grandi ambizioni, dai sogni magnanimi, dagli smisurati propositi. Lo sentono gli anticlericali; ma lo sente anche, nell’intimo, Leone XIII. È una lotta che oppone l’ultimo uomo del Risorgimento ai piani di riconquista della Chiesa, al grande sogno di revanche di Papa Pecci e del cardinale Rampolla. Ma è una lotta che conoscerà pure un termine; è una lotta che non potrà andare oltre la crisi sociale dell’ultimo decennio del secolo; è una lotta che non potrà superare gli ostacoli che si parano dinanzi a Crispi dopo il ’90: ostacoli ben più gravi di quelli affrontati fino a quel momento, ostacoli tali da sovvertire tutti i vecchi criteri di riferimento e di giudizio.
1891. Con la prima caduta di Crispi si chiude anche l’epoca dell’anticlericalismo aggressivo, militante, dell’ “anticlericalismo di Stato”. Il Crispi che tornerà al potere alla fine del ’93 non è più lo stesso: in quei due anni la Banca Romana l’ha scalfito, l’attacco di Rudinì e di Giolitti l’ha umiliato, i moti di Sicilia l’hanno impressionato, la preoccupazione del caos e dell’anarchia sociale prevale ormai su ogni altra considerazione. “Tutto è disordine”: egli dirà a Umberto sul finire di quell’anno, e il governo da lui presieduto si presenterà ormai come un governo di salute pubblica, come un ministero di emergenza, in cui il nemico da combattere è il socialismo, in cui il monstrum da esorcizzare è l’anarchia che minaccia lo Stato, che insidia l’unità nazionale, che comanda agli antichi rivoluzionari – come dirà egli stesso – di trasformarsi in autentici conservatori.
Il problema dei cattolici, adesso, si pone in una prospettiva riversa. Non che Crispi rinunci alle sue affermazioni di fede nello Stato laico e risorgimentale, nella “civile divinità” che aveva ispirato tutta la sua giovinezza. È di questi anni la inaugurazione del monumento a Garibaldi sul Gianicolo; è di questi anni l’elevazione del 20 settembre a festa nazionale. Ma si sente che l’incubo dell’iniziativa cattolica non domina più come una volta l’antico ideatore dei Mille; si sente che il suo terrore è rappresentato ormai dal movimento socialista, in cui egli non riesce a vedere altro che una rivolta sanfedista, che una jacquerie plebea a sottinteso anti-unitario e quindi reazionario.
Quale mutamento in pochi anni! Ai primi di settembre del 1894, visitando Napoli dopo l’epidemia del colera, l’uomo che aveva destituito il sindaco di Roma Torlonia per aver reso visita di omaggio al cardinale vicario invocherà l’unione delle due autorità, la civile e la religiosa, per ricondurre le plebi traviate sulla via della giustizia e dell’amore. “Con Dio, col Re, con la Patria”: esclamerà Crispi contro il motto degli anarchici “Né Dio né padroni”; e per quanto la sua divinità si identificasse col “verbo” di Mazzini, quelle parole saranno interpretate come un atto di distensione e di pacificazione verso il Vaticano.
Il Secolo scriverà a Milano che l’apologista di Giordano Bruno e della Dea Ragione era caduto in ginocchio davanti al cardinale Sanfelice ed un giornale fiorentino prevederà che il capo del governo sarebbe finito canonico a San Pietro; ed erano, entrambe, affermazioni inesatte.
Ma esatto era che qualcosa di nuovo aveva scosso l’Italia fra il 1890 e il 1894, che le pregiudiziali del vecchio anticlericalismo non conservavano più il significato e il valore di una volta, che la lotta sui due fronti, contro socialisti e cattolici, diventava ogni giorno più difficile. Esatto che era la “paura del socialismo” cominciava ad accumunare il volterriani di ieri e i seguaci dell’Opera dei Congressi, la borghesia miscredente e i fondatori dei circoli cattolici, la Nuova Antologia e gli ebdomadari clericali.
La nuova tattica dell’ “opposizione cattolica” favorisce questa opera. Dopo la
Rerum novarum, dopo l’Unione degli studi sociali del Toniolo, dopo la rinnovata iniziativa cattolica nel campo delle classi umili, la Chiesa si presenta come l’unica forza d’ordine che disponga di un vasto consenso popolare, che possa contare sull’appoggio delle moltitudini. Quale migliore argine da opporre alla avanzata socialista e materialista?