Adolphe Franck (1810-1893) racconta la ‘filosofia religiosa degli ebrei’. Sono stati soprattutto i suoi studi, e in seguito quelli di Gershom Sholem e Moshe Idel, ad aver sottratto la Cabala da aree culturali imbarazzanti. La serietà accademica ha reso alla tradizione speculativa ebraica la sua dignità e ai suoi testi. Franck anzi ha anche una sorta di primogenitura. Filosofo, cattedra alla Sorbona, Accademico dei Lincei, membro dell’Académie des sciences morales et politiques, in qualche modo della scuola di Victor Cousin, è stato un “alpino del pensiero” che ha provato a lasciare la valle del positivismo, del ‘sensismo materialista’, per arrampicarsi fin sulle vette dell’Idealismo tedesco. Giù c’è il pensiero filosofico che, semplicemente descrive, su c’è Fichte, Schelling e soprattutto Hegel.
La Cabala ha sempre innamorato la cultura occidentale. La cultura alta. Soprattutto nel Rinascimento, poco prima, poco dopo. Pico della Mirandola, Marsilio Ficino, Reuchlin. Si vedeva, nella Cabala, l’espressione della prisca teologia, della filosofia perenne, cioè di quell’unico corso sapienziale, comune a tutte la tradizioni e a tutte le culture, e che ogni cultura esprime a suo modo. Hegel la metteva proprio così: la verità appartiene alla sfera concettuale, il resto è ‘racconto’, ‘narrazione’. O meglio: ‘rappresentazione’. E la Cabala ha questa peculiarità storica: è l’unica forma rappresentativa che ci è stata consegnata nei secoli. La più antica.
La Qabalah o la filosofia religiosa degli ebrei (1843), in prima edizione italiana (Tipheret – Gruppo Editoriale Bonanno) con la traduzione e il commento di Federico Pignatelli e la nota introduttiva di Mauro Cascio, è il primo tentativo di affrontarne lo studio “con metodi storici, filologici, comparativi e concettuali”. Un’avventura dello Spirito irrequieto che riposa nella compiutezza del suo senso e della sua comprensione.
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