Venni, tra gli altri, io, attratto dal desiderio di visitare la casa della sapienza, ardente di contemplare codesto Palladio, onde non mi vergogno d’aver sopportato la povertà, la malevolenza e l’odio dei miei, le esecrazioni, le ingratitudini di coloro ai quali volli giovare e giovai, gli effetti d’un’estrema barbarie e d’un’avarizia sordidissima; e i rimbrotti, le calunnie, i torti, anche le infamie di quelli che mi dovevano amore, servizio, onore.
Né mi vergogno d’avere sperimentato derisioni e dispregi di ignobili e stolti, persone che, mentre son proprio bestie, sotto immagine e similitudine d’uomini, per il modo di vivere e la fortuna, insuperbiscono di temeraria arroganza.
Per il che non mi duole d’esser incorso in fatiche, dolori, esilio: ché faticando profittai, soffrendo feci esperienza, vivendo esule imparai: ché trovai in breve fatica lunga quiete, in leggera sofferenza gaudio immenso, in un angusto esilio una patria grandissima.
Giordano Bruno, «Oratio valedictoria» (pronunciata nel 1588 davanti ai professori della Università di Wittenberg che lo avevano accolto «esule» e «privo di favore»)
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