Le persecuzioni della Commissione sono cominciate lo scorso marzo
Ecco il testo della lettera inviata dal Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Stefano Bisi al Capo dello Stato, al presidente del Consiglio ed ai ministri, ai capigruppo parlamentari, ai segretari di partito. In essa l’illustre giurista professor Giuseppe Bozzi, membro del pool di avvocati e docenti universitari che difendono le ragioni del Goi e della libertà di associazione, analizza punto per punto e rende evidenti le storture, le incongruenze e le travalicazioni contenute nella relazione prodotta dall’antimafia in merito alle infiltrazioni della malavita organizzata nella Massoneria.
La prima lettura della relazione della Commissione Bicamerale Antimafia presieduta dall’On.le Bindi impone le seguenti considerazioni critiche.
1) Tutta l’impostazione dell’inchiesta nonché l’ondivaga motivazione della relazione finale si caratterizzano per un evidente pregiudizio anti massonico, proprio di una storica tradizione clericale.
Come era stato già eccepito, la Commissione ha spostato l’oggetto dell’indagine ad essa assegnata dalla legge istitutiva dalle organizzazioni mafiose, cui era tenuta, ad una libera associazione di cittadini con fini leciti qual è il GOI nonché alle altre fratellanze.
La relazione, prolissa e ripetitiva, perviene a conclusioni aberranti sul piano giuridico-costituzionale tentando di supplire al vuoto probatorio circa un collegamento fra Massoneria e mafia e in ordine ad una responsabilità della prima per le asserite infiltrazioni mafiose in alcune logge con argomentazioni lacunose e contraddittorie, contorsioni logiche, petizioni di principio, interpretazioni dei fatti capziose e fuorvianti, errori giuridici.
Si è voluto, per un verso, fare assurgere a rango di prova della connessione fra N’drangheta e Massoneria acquisizioni investigative “ancora al vaglio del giudice dibattimentale” ed elementi privi di valore probatorio che gli stessi magistrati ascoltati nel corso dell’inchiesta hanno definito testualmente “ipotesi di lavoro”, “ spunti, elementi sui quali dobbiamo costruire ancora qualcosa di più significativo e importante” (deposizione del Procuratore aggiunto DDA di Reggio Calabria Michele Prestipino Giarritta); per altro verso, si è data una lettura capziosa, fuorviante e illogica alle univoche dichiarazioni del Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Cafiero de Raho e dei suoi sostituti secondo le quali i soggetti mafiosi asseritamene infiltrati sono “ soggetti diversi dagli affiliati alla Loggia che restano occulti alla stessa Massoneria perché non possono esporsi a nessuna altra forma evidente quale il Grande Oriente d’Italia”.
Significativa di un’aporia concettuale è la valutazione degli scioglimenti disposti dal GOI di alcune logge calabresi: Rocco Verducci, I Cinque Martiri, Vincenzo de Angelis di Brancaleone e Lacinia in ordine alle quali non sussisteva alcun atto o provvedimento giudiziario che attestasse l’esistenza di infiltrazioni mafiose, ma unicamente atti segreti che soltanto la Commissione poteva acquisire, quali: “elementi di polizia consistenti in segnalazioni e denuncie” o relazioni contenute nel sistema informatico della DNAA, ossia dati che la stessa relazione riconosce che “non assumono alcuna rilevanza dal punto di vista giudiziario”.
Orbene, incredibilmente la Commissione invece di trarre da ciò la logica e corretta conseguenza che il GOI, non potendo avere accesso ad atti e documenti coperti dal segreto, era all’oscuro delle asserite, ma ancora non provate, infiltrazioni, la Commissione a corto di seri argomenti non si è peritata di lamentare di non aver potuto conoscere le ragioni formali del provvedimento di scioglimento disposto dal GOI.
Pur riconoscendo espressamente che alla Massoneria non può essere demandato il compito di vigilare sull’osservanza delle norme statali e che essa può reagire alle infiltrazioni soltanto qualora ne possa avere conoscenza da fonti giudiziarie, la Commissione nella pervicace e ostinata ricerca di una responsabilità della Massoneria purchè sia, non giustificata dalla realtà dei fatti accertati, si è spinta a criticare l’organizzazione interna del GOI la quale “agevolerebbe” inconsapevolmente le infiltrazioni mafiose.
In un crescendo di preconcetta avversità antimassonica, la Commissione ha fatto affermazioni molto gravi sul piano della lesione della reputazione e dell’onore della Massoneria e del GOI, in quanto frutto di mere e illogiche illazioni.
La segretezza strutturale delle associazioni massoniche e del GOI costituirebbe, secondo la Commissione, “carattere similare a quello delle associazioni mafiose” e “un habitat favorevole alla colonizzazione mafiosa”. Per tentare di offrire una giustificazione a tali gratuite affermazioni la Commissione si spinge a sostenere paradossalmente che il vincolo di solidarietà fra i fratelli, la giustizia interna, la condivisione e il perseguimento di ideali comuni, l’obbligo di riservatezza, il rispetto della Costituzione e delle leggi sono elementi rivelatori della segretezza delle associazioni massoniche e del GOI.
Sorprendentemente la Commissione ha ignorato che questi elementi sono , secondo il nostro ordinamento giuridico, l’espressione del comune vincolo ideale che unisce i fratelli, dell’autonomia normativa e organizzativa propria del fenomeno associativo tutelato dalla Costituzione quale proiezione della sfera individuale e quale potenziamento della personalità degli associati nonché come affermazione di un’istanza di tutela ed espressione dell’interesse confraternale volto a rappresentare istanze culturali e sociali presenti nel mondo contemporaneo.
2) La Commissione, sull’errato e indimostrato presupposto della segretezza delle associazioni massoniche e del GOI propone disinvoltamente al futuro legislatore di disporne lo scioglimento con atto amministrativo del Prefetto senza un previo accertamento giudiziario. Come è stato già denunciato pubblicamente, la misura proposta è palesemente illiberale, contrastante con gli articoli 2, 18 e 27 secondo comma Cost. e costituisce un ritorno al passato in quanto ripropone leggi liberticide tipiche di un regime autoritario di cui si è avuta tragica esperienza in Italia.
La relazione ignora che il diritto di associazione è un diritto di libertà tutelato dalla Costituzione come inviolabile da ogni interferenza esterna dei pubblici poteri, che i singoli possono esercitare in piena autonomia nei campi e per i fini leciti più svariati con il solo limite della legge penale quale unica fonte di qualificazione degli illeciti delle associazioni. Nessuno ha mai dubitato dell’illegittimità costituzionale di interventi del Potere Esecutivo limitativi della libertà delle associazioni o che ne comportino lo scioglimento i quali non dipendano dal preventivo accertamento con efficacia di giudicato di violazioni di precetti penali (Pace, Problematica delle libertà costituzionali).
Secondo lo stravagante assunto della Commissione, invece, quanto da essa proposto “attuerebbe finalmente la volontà dei Costituenti”. A supporto di questa affermazione i Commissari sono costretti a riesumare una tesi di fonte cattolica svolta in Assemblea costituente e rimasta del tutto minoritaria (Tupini, Moro, La Pira) secondo la quale la Costituzione nel disporre il divieto di associazioni segrete avrebbe accolto la nozione sostanziale di segretezza per cui “deve considerarsi segreto il sodalizio che mira a mantenere occulta la propria esistenza e la propria essenza” a prescindere dalla liceità dei fini da esso perseguiti.
Orbene, è stato dimostrato nell’istanza di revisione in autotutela che il GOI non occulta la propria storia, il proprio ruolo né la propria attività. Ciò non ha tuttavia impedito alla Commissione di qualificarlo immotivatamente quale associazione segreta, confondendo la riservatezza con la segretezza e dando, come si è detto, un’assurda interpretazione degli elementi e dei dati organizzativi caratterizzanti l’associazione.
Ma anche l’asserita, ma non vera, segretezza del GOI, ove mai fosse in mera ipotesti dimostrata, non sarebbe sufficiente a giustificarne lo scioglimento fondato sulla discrezionale decisione dell’Esecutivo e quindi di variabili maggioranze parlamentari e non già su di un previo accertamento giurisdizionale irrevocabile di violazione di leggi penali come oggi dispone la legge n. 17/1982.
A tal riguardo la Corte Costituzionale ha sottolineato la necessità che l’appartenenza ad una associazione segreta risulti da un accertamento del giudice penale e che l’intervento dell’autorità amministrativa “si colloca, come per qualsiasi altra categoria di reati, su un piano subordinato o addirittura eventuale, restando vincolato quanto all’an nel caso di sentenza penale di condanna e precluso nel caso di sentenza assolutoria piena” (Corte Cost. n. 978/1988).
Secondo la comune opinione, la Costituzione e la legge n. 17/1982 hanno fatto proprio il concetto strumentale e non sostanziale di segretezza come è stato già ampiamente illustrato nell’istanza di revisione in autotutela. La dottrina quasi unanime e il legislatore del 1982 hanno negato l’autonomia del limite della segretezza rispetto a quello dell’illiceità dei fini delle associazioni. Ne consegue che il limite della segretezza opera unicamente per quelle associazioni che, svolgendo istituzionalmente attività contrarie alla legge penale, debbono ricorrere al segreto come condizione della loro esistenza (Lavagna, Istituzioni di diritto pubblico; Cuomo, Studi Crisafulli).
Come si è detto, contrariamente a quanto è stato sostenuto apoditticamente dalla Commissione , la legge n. 17 del 1982 ha ritenuto la segretezza rilevante soltanto se sia finalizzata a scopi illeciti. L’applicazione del divieto è stata ristretta alle associazioni “politiche” nelle quali sia dimostrata l’esistenza di un collegamento fra segretezza e finalità volte all’interferenza nell’esercizio delle funzioni degli organi amministrativi e costituzionali, di amministrazioni pubbliche, di enti e servizi pubblici con la creazione di poteri occulti di incidenza sul processo di decisione politica (Ridola, Democrazia pluralistica e libertà associativa; Rodotà, Democrazia e diritto; Barile, Diritti dell’uomo).
In conclusione, ben può dirsi che, dopo tanto clamore, vani sforzi e notevole dispendio di denaro pubblico, la montagna ha partorito un ridicolo topo.