Sempre in occasione dell'incontro a Roppolo questa la TM predisposta dal Fr.llo e Comp. Tommaso C.
Carissimi Compagni, mi ricordo ancora le contrastanti emozioni che si agitarono in me quando il Compagno Enrico C. mi chiese di scolpire una tavola sulla Mitezza dell’animo per questo giorno, in un periodo dell’anno in cui ormai è nostra gioiosa consuetudine il riunirci in comunione fraterna a Roppolo, fui turbato a quell’annuncio.
Vivevo infatti in un periodo della mia esistenza in cui prevalevano nel mio animo sentimenti agitati di frustrazione e rabbia, mal conciliabili con lo stato di quiete proprio della mitezza d’animo.
Sul momento mi sentii totalmente inadatto per questo compito.
Ripensandoci immediatamente dopo, mi resi conto invece che mi era stata data un’opportunità, un’ottima opportunità, di padroneggiare quella situazione di importante disagio e di procedere oltre l’agitarsi delle onde in superficie e di attingere l’acqua alla profondità dell’animo, in quel luogo ove, se siamo in grado di addentrarci e soffermarci, vive la dolce quiete dell’eterno, oltre il divenire.
Il Compagno Enrico C., senza saperlo, mi aveva invitato concretamente, nel qui e ora temporale, a rivolgermi nuovamente all’Essenza, nella quiete del Sé, oltre il tumultuoso divenire, e di ciò gli riconosco il merito.
Eccoci dunque al tema: La mitezza dell’animo.
Molti gli Autori antichi che hanno scritto sulla Mitezza e così pure sull’elogio della Mitezza.
Seneca, Platone ed Aristotele son quelli di cui ho letto gli scritti e che qui ricordo.
Anche gli autori religiosi, di tutte le religioni possiamo presumere, hanno scritto sulla Mitezza dell’animo, intessendone l’elogio come bene significativo per l’uomo, preludio alla felicità ed indicativo di forza d’animo, in contrapposizione all’ira, indice di debolezza, di scarsa padronanza di sé e di tendenza all’infelicità.
Ed in effetti esiste una qualità dell’animo che nobilita l’uomo che la possiede.
Egli viene a essere estraneo dall’ira e alla prepotenza poiché non è rancoroso, né vendicativo, non si pone agli altri con astio e ciò dicendo si sottintende che non progetta nei suoi pensieri ripicche, ritorsioni, stratagemmi per colpire i lati deboli ed indifesi del suo simile.
Anzi la sua indole è talmente sensibile da voler reprimere delle sue azioni le conseguenze più dolorose, perdonando al tempo stesso le offese e i torti ricevuti senza rimuginarvi sopra, senza rinfacciarli e alle volte porgendo l’altra guancia, dunque ponendo l’uomo di fronte alla scelta: essere prepotenti e vigliacchi colpendo il debole per mostrarsi forti – ma di fatto sono posizioni invertite – o essere umili e chiedere dialogo, confronto, scuse, venendo incontro al proprio “ego” che si riconosce insicuro e fragile perché senza la maschera della sopraffazione e delle soverchierie indossata per dominare ed emergere in una società dove spesso si sente estraneo e costretto a un carnevale perenne. Vogliamo chiamare questo uomo nobile il Mite.
Egli non ostenta se stesso al mondo, non ha un’opinione esagerata di sé, non si vede sul gradino più alto del podio per i suoi gesti e meriti; il suo cuore non è colmo di superbia, non si mette in mostra, non vive la vita come una sfida, non vi è cedevolezza nei confronti delle regole della gara sociale, si può essere similmente vincitori e vinti senza altezzosità né vergogna, ma non per questo rinuncia ai propri sogni e obiettivi, la sua volontà va oltre la paura, la debolezza, la rassegnazione.
Rifiuta solo la competizione distruttiva e sleale, o meglio non ne trova le ragioni se non nel desiderio di cupidigia verso cui prova fastidio.
Il mite viene dunque a essere non arrogante, non conosce il significato emozionale della protervia e la vanità, protagonista di un’esistenza tranquilla e in pace con se stesso e con il mondo che lo circonda, ignora come aprire il fuoco verso il prossimo e dove può difende quest’ultimo dal fuoco di terzi.
Rifugge egli altresì dall’ira.
Quest’ultima infatti, se non vien domata, può sempre esplodere anche contro i nostri principi morali.
Quando però nel nostro cuore si annida l’odio, che è un profondo sentimento, deliberatamente voluto, di grave avversione e ostilità verso una o più persone, sì da essere indotti a fare o anche solo a desiderare per loro del male, allora l’ira ha il suo campo aperto.
Anzi la sua indole è talmente sensibile da voler reprimere delle sue azioni le conseguenze più dolorose, perdonando al tempo stesso le offese e i torti ricevuti senza rimuginarvi sopra, senza rinfacciarli e alle volte porgendo l’altra guancia, dunque ponendo l’uomo di fronte alla scelta: essere prepotenti e vigliacchi colpendo il debole per mostrarsi forti – ma di fatto sono posizioni invertite – o essere umili e chiedere dialogo, confronto, scuse, venendo incontro al proprio “ego” che si riconosce insicuro e fragile perché senza la maschera della sopraffazione e delle soverchierie indossata per dominare ed emergere in una società dove spesso si sente estraneo e costretto a un carnevale perenne.
Vogliamo chiamare questo uomo nobile il Mite.
Egli non ostenta se stesso al mondo, non ha un’opinione esagerata di sé, non si vede sul gradino più alto del podio per i suoi gesti e meriti; il suo cuore non è colmo di superbia, non si mette in mostra, non vive la vita come una sfida, non vi è cedevolezza nei confronti delle regole della gara sociale, si può essere similmente vincitori e vinti senza altezzosità né vergogna, ma non per questo rinuncia ai propri sogni e obiettivi, la sua volontà va oltre la paura, la debolezza, la rassegnazione.
Rifiuta solo la competizione distruttiva e sleale, o meglio non ne trova le ragioni se non nel desiderio di cupidigia verso cui prova fastidio.
Il mite viene dunque a essere non arrogante, non conosce il significato emozionale della protervia e la vanità, protagonista di un’esistenza tranquilla e in pace con se stesso e con il mondo che lo circonda, ignora come aprire il fuoco verso il prossimo e dove può difende quest’ultimo dal fuoco di terzi. Rifugge egli altresì dall’ira.
Quest’ultima infatti, se non vien domata, può sempre esplodere anche contro i nostri principi morali.
Quando però nel nostro cuore si annida l’odio, che è un profondo sentimento, deliberatamente voluto, di grave avversione e ostilità verso una o più persone, sì da essere indotti a fare o anche solo a desiderare per loro del male, allora l’ira ha il suo campo aperto.
Il mite è dunque consapevole di ciò che si annida nell’animo umano ed è a conoscenza della propria debolezza, dei suoi limiti umani e proprio questo è alla base della sua forza e del poter dire infine di aver vissuto senza paure, rimpianti o rimorsi alcuni, osserva con distacco la sua stessa storia e costruisce il suo futuro su di essa non rinnegandola perché parte della sua crescita, insostituibile al di là delle possibili sofferenze di necessità incontrate o causate dall’altrui cattiveria. A questo punto potrei anche intuire un'obiezione in qualcuno di voi: “Ma ad esser miti si rischia per passare da deboli e da stupidi!”.
È vero, invece, proprio il contrario: è la mitezza o dominio di sé la vera forza dell'uomo ragionevole, mentre gli scoppi d'ira, lo sbattere le porte, il battere pugni sul tavolo, il gridare come ossessi sono segni evidenti di debolezza psichica e morale.
Nessuno, infatti, ammira la terribile forza di un energumeno scatenato in un reparto di un ospedale psichiatrico, perchè si tratta di una forza solo apparente, brutale, devastatrice per sé e per gli altri...
La fortezza umana è dunque ben altra cosa! Ed in effetti la vera forza non risiede nella vigoria del corpo, ma nella fermezza dell’animo; si è tanto più forti quanto più si usano i ragionamenti anziché le mani.
Domandiamoci ora: la Mitezza è parte degli Ideali Massonici? È coraggioso e forte chi giunge alla mitezza e la gioia radica in lui. Più difficile che vincere il nemico è il dominar se stessi lungi dall’ira: che se la prima cosa è frutto dei mezzi, dell’astuzia, della forza, degli eventi, la seconda è frutto del lungo e difficile cammino dalle tenebre alla luce, dal dominio delle passioni al dominio della ragione e della luce appunto, della luce della Sapienza, della Bellezza, della Forza, degli ideali di Fratellanza e Tolleranza amorevole nel giusto della Nostra Comunione.
Come potremmo lavorare sotto il cielo della Sapienza, della Bellezza, della Forza senza la Mitezza? Lontano dalle passioni del Mondo recita il nostro rituale e la Mitezza ne è la conseguenza.
Il messaggio all’universalismo massonico ed alla tolleranza implica la Mitezza e l’Armonia ne è il frutto.
È necessario che nella diversità le cose si armonizzino tra loro, così come armonicamente si dispongono le diverse note su di un pentagramma per dar vita ad un unico concerto, il quale non potrebbe realizzarsi senza la diversità stessa delle note.
Dalla purezza di ogni singola nota dipende poi l'armonica bellezza dell'insieme.
Ma come non tutti i toni delle diverse note possono essere affiancati, vi sono principi concettualmente agli antipodi che difficilmente possono essere messi in relazione.
Nella nostra finitezza ogni creatura ci appare come un universo a se stante a causa di molteplici fattori che contribuiscono a formare la sua natura, ma specialmente a causa della propria evoluzione spirituale.
Ognuno vibra a seconda delle sue intrinseche qualità che sono il risultato delle sue esperienze di vita, oltre che dei suoi retaggi genetici.
Nel regno della Manifestazione l'entità umana ci appare costituita da tre componenti fondamentali: il corpo, la mente e la sfera emotiva.
Se uno solo di questi componenti non si sviluppa quantitativamente e qualitativamente come gli altri due si genera nell'individuo una sorta di scompenso naturale che si manifesta poi attraverso la malattia del corpo, della mente o della coscienza.
Ebbene la Mitezza è colei che mi ricorda che ogni uomo è mio fratello, anche nella tempesta dei più duri contrasti.
Tamaso ma jyotir gamaya: Conducimi (o Fratello) dalla Tenebra alla Luce! Perch’io non mi ritengo un mite, ma mi sforzo d’esserlo.
(Tommaso C.)