venerdì 30 ottobre 2020

La Massoneria a Noto. Dal Settecento ai giorni nostri




La Città di Noto ha in sé, nell’eleganza dei suoi palazzi monumentali del tardo barocco, chiari ed evidenti segni dello spirito Massonico, che idealmente la legano ai costruttori di Cattedrali e alle conoscenze edificatorie che essi custodivano e tramandavo, quale espressione di Città ideale, voluta all’insegna dell’Armonia e della Gioia di vivere. Esponenti di spicco tra i suoi fondatori, furono legati all’Ideale Massonico ed esoterico dell’epoca. Tra di essi spicca la nobile famiglia Nicolaci, i Paternò Castello, i Trigona. In particolare ricordiamo l’illustre Giacomo Nicolaci, detto il gobbo, appartenente all’Accademia dei Trasformati e il di lui fratello Corrado Nicolaci. Negli anni a seguire altri netini illustri furono iniziati alla Massoneria, nel periodo risorgimentale, in particolare ricordiamo ad esempio il Ministro Matteo Raeli, successivamente il Letterato e Poeta Giuseppe Cassone; la poetessa Mariannina Coffa che aderì ai medesimi ideali, così pure il padre, Avvocato Coffa e una nutrita schiera di uomini dell’epoca. La presenza delle Logge a Noto è proseguita nei primi anni del ’900 con le Logge Arnaldo e Ferruccio, Darwin, e sino agli anni ’70 con la Loggia Mazzini, dalla quale ha tratto un fertile innesto, oggi in piena fioritura, la R∴.L∴ Agape n.1381, grazie ai numerosi fratelli che ne adornano le colonne.

giovedì 29 ottobre 2020

Il Grande Oriente ricorda il fratello Achille Ballori ucciso il 31 ottobre del 1917





ll Grande Oriente d’Italia ricorda  Achille Ballori, il fratello martire ucciso a colpi di pistola nella serata del 31 ottobre del 1917 all’interno di Palazzo Giustiniani da un folle, spinto a questo insano gesto dal clima fortemente antimassonico che cominciava a soffiare sull’ Italia, alla vigilia della marcia su Roma e dell’ascesa del fascismo, che perseguiterà i liberi muratori, mettendo a ferro e a fuoco le logge fino a sequestrare la sede del Goi.

Nato a Dicomano (Pisa) il 29 aprile 1850 Ballori era un medico dalle straordinarie qualità. Aveva diretto l’ospedale civile di Mantova prima e poi gli Ospedali Riuniti di Roma e durante l’amministrazione di Ernesto Nathan era stato assessore all’Igiene della Capitale. Ineccepibile anche il suo curriculum massonico: nel 1874 era già maestro nella loggia “Umanità e Progresso” di Pisa e nel 1891 venerabile dell’officina “Rienzi” di Roma. Nel 1893 era stato eletto Grande Maestro Aggiunto del Grande Oriente d’Italia e il 20 marzo 1899 era stato insignito del 33° grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato, del quale divenne nel 1906 Sovrano Gran Commendatore, carica che ricoprì sino alla morte. Per sua volontà fu cremato e seppellito nella tomba monumentale dei Gran Maestri al Verano.

La ricostruzione dei fatti

Ballori era un personaggio noto e i media dell’epoca si occuparono molto del suo omicidio avvenuto la sera del l 31 ottobre 1917. Erano le 18, 15, secondo le testimonianza raccolte dagli investigatori, quando un uomo sulla quarantina con pizzetto, abito grigio e cappello a lobbia, di media statura e robusto, suonò al campanello del portone in via della Dogana Vecchia di Palazzo Giustiniani a Roma. Si presentò come Giobbe Giobbi e chiese di parlare con Ballori. Giobbi si era recato già, senza trovarlo, nella casa del Gran Maestro Aggiunto in Via San Martino al Macao, ed era stata Filomena, la governante, a dirgli che lo avrebbe trovato appunto nella sede del Grande Oriente. Ballori, che era in compagnia del professor Ulisse Bacci, Gran Segretario, andò personalmente a riceverlo all’ingresso. “È lei il commendator Ballori?”, gli domandò il sedicente Giobbi, tirando fuori una pistola e cominciando a sparare contro di lui alcuni colpi mortali di arma da fuoco, per poi fuggirsene, nella confusione generale, fischiettando l’incipit della Cavalleria Rusticana. L’assassino lasciò Palazzo Giustiniani e salì su un tram per presentarsi, alle 19,30, al numero 9 di via Augusto Valenziani dove si trovava la casa dell’ex Gran Maestro Ettore Ferrari. La portiera gli riferì che lo avrebbe trovato solo mattina successiva. Di qui, l’uomo si diresse poia palazzo Sciarra, sede del “Giornale d’Italia”, dove chiese a un fattorino perché il giornale non fosse ancora uscito, non nascondendo la sua soddisfazione, quando questi gli rispose che il ritardo era dovuto alla notizia dell’uccisione del professor Ballori. Intanto la Questura aveva disposto misure di sicurezza davanti alle abitazioni di tutti i massimi dirigenti della Massoneria. E Giobbi fu arrestato il giorno dopo proprio nei pressi dell’abitazione in via Torino dell’ex sindaco di Roma ed ex Gran Maestro del Grande Oriente Ernesto Nathan.

Il pericoloso pregiudizio antimassonico

Il vero nome di Giobbi era Lorenzo D’Ambrosio. L’attentatore di Ballori era un farmacista, aveva 47 anni, era nato ad Avellino e resiedeva a Roma. Era sposato e padre di due figli. Portato al commissariato di via Magnanapoli, venne perquisito e trovato in possesso di un coltello a serramanico «a foglia d’olivo» di 9 cm e un revolver Smith & Wesson a 5 colpi, calibro 7,65 scarico. Anarchico individualista, nel corso dell’interrogatorio cui venne sottoposto, manifestò tutta la sua avversione psicotica contro la Massoneria, accusandola di ogni male e anche di alcuni suoi problemi personali: dal suo internamento nel manicomio di Nocera nel 1916 alla morte della sorella Costantina in America, asfissiata dalle esalazioni di gas illuminante per un rubinetto lasciato aperto. D’Ambrosio spiegò che si era voluto vendicare. “Debbo dichiarare – disse  che non avevo ragione alcuna di speciale antipatia per il Ballori, persona di ottimo cuore e di grande onestà. La mia intenzione era di colpire la Massoneria nelle sue personalità più rappresentative: avevo idea di uccidere, oltre il povero Ballori, anche Ettore Ferrari ed Ernesto Nathan. Che io non avessi ragione di odio contro il Ballori ve lo dimostra il fatto che stamane ho comprato due mazzi di fiori da deporre sulla sua tomba. Se non mi aveste arrestato avrei seguito fino all’ultimo il mio programma. Sabato mi sarei recato ai funerali del Ballori, e avrei fatto una strage […]”. Il 29 aprile 1918, lD’Ambrosio venne riconosciuto affetto da demenza paranoide, prosciolto dall’accusa di omicidio e rinchiuso per sempre in un manicomio giudiziario.

venerdì 23 ottobre 2020

Yakhin la parola sacra del Compagno d’Arte


di Luca Delli Santi

Il grado di Compagno d’Arte è spesso non sufficientemente valorizzato nella vita delle officine, i fratelli lo vivono come una transizione fra il primo grado ed il terzo, in molti casi si lavora in camera di Compagno solo per celebrare gli aumenti di salari, tutto ciò non consente di valorizzare i profondi insegnamenti che vi sono custoditi.
In ambito cabalistico fra gli aspetti più interessanti sui quali riflettere vi sono certo la parola di passo Shiboleth, su cui si è già detto, e la parola sacra Yakhin.
Nella simbologia del tempio di Salomone in relazione all’Albero della Vita la colonna di Yakhin rappresenta la sephira Netzach, eternità, vittoria, intese come trionfo della vita eterna sulla morte. 
Riguardo Netzach abbiamo già avuto modo di scrivere in precedenza qualche accenno, prendiamo in considerazione la parola Yakin in quanto tale.
Il significato letterale è Stabilità, come noto nel tempio di Salomone era posta a destra. La parola Boaz, il nome della colonna di sinistra, significa forza, ben si sposa questo concetto con il lavoro dell’Apprendista che è prima di tutto esercizio di volontà.  Nel secondo grado il fratello dovrebbe aver acquisito il dominio di questa qualità e renderla un elemento permanente, stabile del lavoro. Yakin è la capacità di restare fedele a ciò che ci si è proposti, l’impegno a percorrere incessantemente la via iniziatica tradizionale, un impegno assunto in primo luogo con se stessi.
La pima lettera di questa parola in ebraico è la Yod, da ciò traiamo il suo carattere maschile ed attivo, l’ideogramma della Yod rappresenta un seme, il potenziale luminoso che se ben coltivato produce fecondi frutti. 
La ghematria è 90 come quello della parola Man, la Manna. Shiboleth ci richiamava al cum panis, la condivisone fra pari della conoscenza, Yakhin ci proietta alla fine del lavoro, il pane condiviso fra i compagni si sublima diventando la Manna, il cibo concesso direttamente dal divino, una “sostanza” che connette i piani spirituali e quelli materiali, il cibo concesso direttamente da dio è un allegoria della conoscenza trasmessa direttamente dal divino all’umano senza mediazioni. L’essere umano ha ritrovato il ponte con l’Assoluto che si era rotto a causa della caduta e la conseguente perdita dello stato edenico.
Un’altra ghematria che si riconnette direttamente al significato della conoscenza è Maim, l’acqua.
Infine Yakhin condivide la ghematria di Melek, il re, il libero muratore è re di se stesso, domina le proprie pulsioni, trasforma ogni energia in una forza in grado di alimentare il lavoro spirituale.
Il grado di Compagno d’Arte ha già in sé tutti gli elementi che consentono al libero muratore di percorrere la via regale, è qui che gli viene indicato che solo attraverso la condivisone delle conoscenza fra fratelli, egli potrà aspirare al sapere più elevato: la Manna.
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giovedì 22 ottobre 2020

Da Ipazia a Filelfo, un’antica tradizione può salvare il mondo




Nella crisi dei tempi — che si tratti della caduta dell’impero romano o della catastrofe ambientale che minaccia il pianeta — la tradizione antica ci insegna a rivolgerci alla madre terra, per rinnovare in noi stessi quell’opus di trasformazione che l’ars magna garantisce sempre possibile. Due sapienti, una donna e un uomo come nel Mutus Liber, ci fanno da guida, ricordandoci che la nostra anima individuale non esiste se non come parte dell’unica anima del mondo: un mondo che possiamo e dobbiamo, attingendo alla loro sapienza, salvare.

Al centro dell’incontro che si terrà il 17 novembre alle ore 19 che il Servizio Biblioteca ha organizzato con Silvia Ronchey ci sono due storie di straordinaria attualità: la prima su Ipazia, matematica, astronoma, filosofa, influente politica, sfrontata e carismatica maestra di pensiero e di comportamento. La nuova edizione aggiornata e accresciuta di Ipazia. La vera storia che verrà pubblicata da Einaudi nei prossimi mesi, si è data un compito ambizioso: da un lato, dare conto di tutti gli interventi apparsi su Ipazia e analizzare tutte le opinioni che sono state espresse nel decennio che la separa dalla prima edizione (2010, con sei ristampe); d’altro lato, chiarire ulteriormente l’oggetto e opporre i fatti, in molti casi, alla fantasia o all’errore. La seconda storia riguarda una favola scritta dal misterioso Filelfo intitolata: L’assemblea degli animali. La vicenda del libro è raccontata dal punto di vista degli animali, che sanno come l’uomo si sia allontanato dall’antica sapienza grazie alla quale viveva in armonia con la natura, abbia smarrito la consapevolezza di far parte di un’unica anima del mondo e sia avviato a distruggere la casa comune di tutti gli esseri viventi. L’assemblea degli animali racchiude più libri in uno: favola ecologica di questi tempi, accessibile a ogni tipo di lettore; gioco letterario a scovare le citazioni nascoste nel testo; e opera pedagogica grazie al puntuale regesto in appendice, in cui le centinaia di rimandi alle opere vengono riportati fornendo al lettore la possibilità di approfondire gli autori menzionati.

Chi volesse partecipare dovrà  inviare una e-mail di registrazione all’indirizzo: bibliogoi@grandeoriente.it, indicando le proprie Generalità. Al ricevimento della richiesta di registrazione verranno inviate le istruzioni per poter partecipare. Ci si può prenotare entro il 16 novembre alle ore 15.00.

mercoledì 21 ottobre 2020

Dioniso immortale. Il don Giovanni tra iniziazione e mito




Per rinvenire ciò che da tempo è rimasto nascosto del Don Giovanni di Mozart è essenziale andare oltre. Un percorso insicuro e non facile, tra ordine e disordine, tra libertà e negazione, tra Eros e Tanathos, tra sacro e profano, tra sublime bellezza e oscenità. Ma il mito ci è compagno con Dioniso l’immortale. Conoscerlo, quando afferrati da un rischioso processo di conoscenza, egli ci mostra un (nostro) rimosso pezzo del Sé. Rispetto alle altre opere non è azzardato definire il Don Giovanni come la più misteriosa tra le opere di Mozart. Proprio per quella sua peculiare dimensione altra, posta sulla soglia della metacognizione, espressione dell’archetipo coperto come tale, che si manifesta a tratti nell’Opera tra le evidenti apparenze comico-drammatiche. Il libro narra di una ribollente vitalità, in parte provocatoria ma solidamente fondata su significati tradizionali che disvelano dimensioni meno note riguardanti sicuramente più il mito e il numinoso, la massoneria e gli Illuminati di Baviera, che non delle avventure di un play boy di campagna della fine del XVIII secolo. Qui Praga: rappresentazione dell’Opera 1787 appena venti mesi dalla Rivoluzione francese, dove con audace incoscienza si anticipa il trinomio: Libertà, Uguaglianza, Fraternità. Viva la Libertà.

martedì 20 ottobre 2020

Amilcare Cipriani, da Mazzini alla Massoneria

di Antonino Zarcone




Il 18 ottobre 1844, Anzio (RM), nasce Amilcare Cipriani. Appena quindicenne si arruola volontario nell’esercito piemontese per partecipare alla seconda guerra d’Indipendenza guadagnando i gradi di caporale dopo la battaglia di San Martino. L’anno seguente diserta per raggiungere Garibaldi e si unisce alla spedizione dei Mille nella quale è promosso ufficiale. Rientrato nell’esercito a seguito di amnistia partecipa alla lotta al brigantaggio, ma diserta nuovamente per unirsi ancora a Garibaldi nella spedizione fermata in Aspromonte. Sfuggito alla cattura, ripara prima in Grecia, dove nel 1863 partecipa al movimento insurrezionale contro Re Ottone, poi a Londra, dove prende parte al meeting costitutivo della I^ Internazionale, quindi in Egitto, dove si unisce alla spedizione scientifica italiana che risale il Nilo alla ricerca delle sue sorgenti e coopera alla costituzione delle prime società operaie di ispirazione democratico-repubblicana. Torna in Italia per partecipare alla Terza Guerra d’Indipendenza con i volontari di Garibaldi. Finita la guerra si reca a Creta per sostenere la fallita insurrezione contro i Turchi. Tornato in Egitto, quando ad Alessandria nel settembre 1867 è aggredito nel corso di una rissa, uccide un italiano e due guardie che lo inseguono, per cui fugge a Londra. Qui collabora con Mazzini che gli trova lavoro come fotografo nello studio dei compatrioti Caldesi e Nathan, e sposa una francese. Nel 1870, in Francia, viene coinvolto in un complotto contro la vita di Napoleone III, uscendone scagionato. Espulso dal territorio francese, vi ritorna dopo la proclamazione della Repubblica, partecipa alla occupazione dell’Hôtel de Ville, combatte contro i Prussiani ed è tra i protagonisti della prima fase della Comune. Catturato al termine di uno scontro a fuoco con i Versagliesi, viene condannato a morte ma è salvato dal plotone d’esecuzione per paura di rappresaglie contro gli ostaggi in mano della Comune. Ristretto nelle carceri di Belle-Isle e Cherbourg, è condannato a morte una seconda volta dopo la caduta della Comune, salvandosi in seguito alla commutazione della pena nella deportazione a vita a Noumea, nella Nuova Caledonia. Amnistiato nel 1880, torna in Francia dove riprende l’attività politica con i circoli socialisti, per cui viene espulso. Rientrato in Italia per partecipare ad una manifestazione, nel 1881 viene arrestato alla stazione di Rimini ed incriminato per cospirazione contro la sicurezza dello Stato e per omicidio plurimo in relazione al fatto di sangue di Alessandria d’Egitto. Condannato a 25 anni di prigione viene recluso nel penitenziario di Portolongone. La sua condanna provoca una campagna in favore della sua liberazione che diventa uno dei rari momenti unitari della sinistra italiana. Tra le azioni di protesta la sua simbolica elezione “plebiscitaria” a deputato nei collegi di Ravenna e Forlì, poi annullata. Assolto dal tribunale militare di Milano per il reato di diserzione dall’esercito all’epoca dei fatti di Aspromonte, amnistiato nel 1888, torna a Parigi. Qui riprende l’attività politica e fonda “Unione dei popoli latini”. Oratore ufficiale al Comizio del 1° maggio 1891 a Roma in piazza S. Croce in Gerusalemme, conclusosi tragicamente con morti e feriti, viene arrestato e condannato a 3 anni di reclusione, che sconta in parte nelle carceri di Perugia. Liberato, nel 1893 partecipa alla II^ internazionale a Zurigo, dimettendosi dopo l’esclusione degli anarchici. Nel 1897 è ancora garibaldino in Grecia, per la guerra contro i Turchi, dove guida una formazione di volontari nella guerriglia in Macedonia e partecipa alla battaglia di Domokos, in cui rimane ferito ad una gamba. Stabilitosi nuovamente a Parigi, riprende l’attività politica e lavora come redattore de “La Petite Republique” e poi di “Humanité”, sostenendo i movimenti repubblicani, antimilitaristi ed anticlericali. Eletto deputato nel 1914 con il sostegno della fazione rivoluzionaria del partito socialista guidata da Mussolini, rifiuta di prestare il giuramento al Re per cui decade da parlamentare. Interventista, sostiene la guerra contro la Germania per solidarietà con le nazioni aggredite e per i legami con la democrazia francese. Vecchio ed ammalato, oramai lontano dalle vicende politiche, muore in una casa di salute di Parigi il 30 aprile 1918. È data per certa la sua iniziazione alla Massoneria.

venerdì 16 ottobre 2020

Schibolet, la parola di passo del Compagno d'Arte



di Luca Delli Santi

«I Galaaditi intercettarono agli Efraimiti ai guadi del Giordano; quando uno dei fuggiaschi di Efraim diceva: "Lasciatemi passare", gli uomini di Gàlaad gli chiedevano: "Sei un Efraimita?". Se quegli rispondeva: "No",  i Galaaditi gli dicevano: "Ebbene, di' Schiboleth", e quegli diceva Shiboleth non sapendo pronunciare bene. Allora lo afferravano e lo uccidevano presso i guadi del Giordano. In quella occasione perirono quarantaduemila uomini di Efraim».
In questo brano del libro dei Giudici 12, 5- 6 compare la  parola Shibboleth, l’uso è simile a quello adottato in massoneria, si tratta  di una parola d’ordine, difficile da pronunciare per gli stranieri e di conseguenza adatta come stratagemma di riconoscimento.
La traduzione più ricorrente della parola è spiga, il grano è un elemento base dell’alimentazione, connesso con il pane, il “cum panis “ è la persona con cui si condivide il pane, alimento simbolo di conoscenza, nei riti cristiani rappresenta il corpo del verbo incarnato, all’inizio del kiddush shabbat viene benedetto. Il Fratello Apprendista Libero Muratore ha conosciuto il valore della fratellanza massonica, ha partecipato al lavoro per il bene ed il progresso dell’umanità, da Compagno d’Arte è chiamato a condividere quanto ha appreso con i fratelli dell’officina, l’intuizione che dovrà guidarlo è anche, e soprattutto, la capacità di rendere il lavoro individuale lavoro collettivo, non a caso a questo grado è leagto anche l’uso della cazzuola, la malta che viene spalmata è il sapere reso comune, il frutto del lavoro.
In ebraico la parola Shiboleth ha due forme ortografiche corrette:  שבלת e שבולת , come si può osservare la differenza sta nello scrivere o no la lettera Vav, che si usa per dare maggiore enfasi alla pronuncia, in questo caso, essendo preceduta da una beit, non è strettamente necessaria. Da un punto di vista cabalistico però la scelta non è altrettanto indifferente, la Vav è un gancio che crea connessione, in particoalre fra “l’alto e il basso”, la carica energetica della parola cambia, e soprattutto, naturalmente, cambia la ghematria.
La ghematria della prima versione ortografica è 732 che corrisponde anche al l’espressione Ben Porat, “ figlio fertile”, l’iniziabile è pienamente iniziato, un membro attivo e pienamente produttivo della corporazione, la fertilità di cui è dotato è la capacità di contribuire alla costruzione del tempio dello spirito. L’operaio è pienamente abile al lavoro. Inoltre 732 corrisponde anche al versetto 27:19 del libro dei Proverbi: “Come nell’acqua il viso riflette il viso, così il cuore dell’uomo rivela l’uomo”.
La seconda versione ortografica ha ghematria 738 che corrisponde al verbo Yashab, dimorare, “ Oh com’è bello e giocondo quando i fratelli dimorano insieme” recita il salmo 133, così caro alla tradizione di ordini cavallereschi e monastici.

Inoltre 738 equivale a labash, vestito, questo è un riferimento alla condizione adamitica decaduta nella quale siamo precipitati e dalla quale dobbiamo emanciparci, ma è certo la isopsefia a svelarci il più affascinante segreto ed il più rilevate potenziale custodito nel numero 738, equivalente infatti al greco antico Iesous, Gesù. Svolgendo una riflessione un poco ardita possiamo dire che l’energia impressa dalla Vav, che rappresneta  il “Figlio” nel Tetragramma, porta la ghematria della spiga ad essere equipollente al pane eucaristico della simbologia Cristiana, il verbo incarnato.  Naturalmente si tratta di giocare con le rappresentazioni,  i simboli, gli archetipi della tradizione abramitica, in cui fiorisce e si sviluppa la sapienza massonica, per superarli, arrivando al loro cuore, ai concetti universali. 
Una parola di passo, un vocabolo difficile da pronunciare, che anche nel mondo profano indica un mezzo per allontanare gli estranei, può custodire un tessuto simbolico prezioso e contribuire far scaturire nuove riflessioni, naturalmente il 738 è un numero complesso che nasconde anche insidie, equivale anche a leshachet, distruggere e a tishlach, manderai, del resto non furono forse   dei “cattivi compagni”, con la loro condotta infame, a far nascere il mito di Hiram?
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lunedì 12 ottobre 2020

Chi erano le ninfe?

di Michele Leone




Le Ninfe nella mitologia classica – prima greca e poi romana – erano divinità minori o secondarie abitanti, per alcuni custodi, il mondo naturale in ogni sua manifestazione. Avevano un aspetto affascinante, giovani procaci, sensuali e dagli abiti succinti. È possibile dividere le Ninfe in alcune categorie, una suddivisione può essere ad esempio quella per elemento naturale: acqua, terra ecc.

Le Ninfe solitamente erano benigne verso gli esseri umani, alcune volte potevano anche concedere il loro amore ad un uomo, altre volte potevano provocare problemi ed essere pericolose.

“Le Ninfe, in particolare, sono onnipresenti. Tutti i regni della natura appartengono al dominio di queste creature affascinanti e misteriose, inafferrabili e inquietanti. A volte posso no apparire dolcissime e benevole, altre volte la loro potenza si manifesta in forme terribili e oscure. Spesso sono legate alle acque: alle sorgenti, ai fiumi o all’enigma infinito del mare, sia nella sua superficie iridiscente sia nelle sue più insondabili profondità. Il loro volto può comporsi in uno specchio d’acqua, apparizione arcana che incanta gli uomini e li trascina in un mondo segreto e fuori dal tempo. Ma altre volte le Ninfe abitano gli alberi o le montagne, nascoste dentro un tronco o nell’intrico di una selva. Le Ninfe, insomma, non frequentano le strade delle città. Vivono al di fuori del mondo civile, dentro orizzonti selvaggi in cui l’uomo non può più sentirsi protetto come membro di una società e rischia anche di perdere se stesso, di vedere svanire la propria identità individuale.” (in Giorgio Ieranò, Demoni, mostri e prodigi, l’irrazionale e il fantastico nel mondo antico, Sonzogno, Venezia 2017, 1a ed. digitale).

 

Quanti tipi di ninfe esistono?


Auloniadi e Napee: Abitavano i Boschi e le valli;

Coricidi; Abitavano le grotte e gli antri;

Crenee, Naiadi o Pegee: Ninfe delle fontane;

Amadriadi e Driadi: Abitavano le foreste;

Efidriadi: Ninfe delle acque;

Epigee: Ninfe terrestri;

Linnadi: Abitavano nei pressi dei laghi o degli stagni;

Naiadi: Ninfe delle Fonti d’acqua, laghi e fiumi;

Nelie: Ninfe dei prati;

Oceanidi o Nereidi: Ninfe marine;

Oreadi, Orodenniadi o Orestiadi: Abitavano le montagne;

Potamidi: Ninfe dei Fiumi;

Uranie: Abitavano i cieli;

Le Ninfe dei luoghi prendono nome dal luogo che abitano.
[...]


Vaticinio, Profezia e “super poteri”

Le Ninfe, soprattutto quelle delle acque, si ritiene avessero la capacità vaticinio e profezia. Spesso coloro che si abbeveravano alle loro acque potevano acquisire questo dono. Non solo per mezzo delle acque le Ninfe potevano ispirare gli uomini per mezzo della “possessione” e posseduti dalle Ninfe, detti dai Romani lymphatici o lymphati, potevano essere i pazzi, i veggenti e i poeti.

Alcune Ninfe come ad esempio le Naiadi sembra fossero in grado di curare e guarire.

 
Il culto

Alle Ninfe nell’antica Grecia era riservata una forma di culto privato o familiare, non si hanno notizie di culti pubblici. Solitamente il culto alle Ninfe era reso nei luoghi dove si pensava abitassero e spesso luogo d’elezione per le pratiche rituali erano le grotte.

Nel mondo romano le Ninfe avevano un culto pubblico, solitamente associate ad autoctone divinità delle sorgenti e le loro feste furono inglobate nelle celebrazioni tributate al dio Fontus. Queste celebrazioni avevano luogo il 13 ottobre con la festa delle Fontinalie, si riempivano le fontane con fiori e adornavano i pozzi. I templi dedicati alle Ninfe prendevano il nome di Ninfeo, spesso erano delle grandi fontane.  Nei ninfei venivano anche celebrati i matrimoni. Prendeva nome di Ninfagogo colui che, il giorno delle nozze, prendeva la sposa dalla casa paterna e la conduceva a quella dello sposo.

In prevalenza le offerte votive alle Ninfe non erano cruente, era offerta della frutta, del miele, del latte; raramente agnelli o capretti...

giovedì 8 ottobre 2020

Massoneria e Cabala. Chokhmà, la Colonna della Sapienza

di Luca Delli Santi




La sephira Chokhmà è l’archetipo della Sapienza assoluta, che va ben oltre ogni umana concezione.
Nell’Albero della Vita Chokhmà è il vertice del pilastro bianco, attivo, maschile è il desiderio del Creatore di compiere l’atto creativo, il lampo di intuizione in cui è contenuto tutto l’esistente, non solo il manifesto ma anche il potenziale. A questo livello di realtà tutto è indefinito, gli archetipi sono indistinti in una unitarietà totale, il tempo è un eterno presente, grazie all’intervento discriminante, analitico e separante di Binà, i potenziali archetipi assumeranno forma, la Creazione e le Creature acquisiranno consistenza e specificità.
Chokhmà è un’intuizione fugace, un lampo che illumina la coscienza ci dice la antica tradizione, una condizione elevata in cui per un attimo la nostra mente concepisce il paradosso, ma non può che essere un momento effimero, poiché quando la razionalità riprende il sopravvento non si è più grado di percepire l’intuizione della Sapienza.
La formula con cui viene espresso questo concetto è in aramaico, mati ve lo mati, tocca e non tocca, le esperienze del tocca e non tocca, ci viene tramandato dalla tradizione, possono generare frustrazione in quanto colui che ha sperimentato lo stato di concepire il paradosso desidera riviverlo. La cabala ci suggerisce di rifuggire simili atteggiamenti, il sapiente vive queste fugaci esperienze negli stati più elevati dell’essere come doni, momenti da cui arricchirsi e trarre giovamento, anche quando se ne beneficiasse una solo volta in tutta la propria esistenza.
La scuola Chassidica individua come qualità interna della Sapienza il Bitul, letteralmente l’annullamento, è se stessi ciò che occorre annullare, la Sapienza richiede come tributo il superamento del proprio ego, non solo delle proprie aspirazioni o pulsioni materialistiche, si tratta della capacità di superare il concetto della propria autocoscienza come elemento separato dal tutto. Una permutazione per chiarie questo concetto: lo stato dell’essere “divino “più elevato nella cabala è chiamato Ain, letteralmente nulla, nulla in quanto inconcepibile ed inconoscibile dall’essere umano, io in ebraico si dice Ani, il Bitul è la capacità di permutare l’ANI in AIN.  Naturalmente stiamo parlando di complessi percorsi mistici ed iniziatici.
Il carattere sfuggente della Sapienza ha sempre reso complesso attribuirle un riferimento astrologico, alcune scuole di cabala vi videro una connessione con Nettuno, nume connesso con la saggezza e la capacità di discernimento, anche se, tradizionalmente, le si è attribuito prevalentemente tutto lo zodiaco, per il fatto che i suoi simboli contengono una complessità di archetipi riconducibili ai molteplici caratteri ed alle molteplici conoscenze umane, simbolo che racchiude l’insieme dei simboli del cosmo. I cabalisti contemporanei la associano a Mercurio, in ebraico Kokhav Chama, la stella del sole, si ritiene che la sua vicinanza al Sole, essendone completamente irradiato in quanto primo ricettore, rappresenti meglio di qualsiasi altro corpo celeste le caratteristiche di Chokhmà.
Nel Tempio massonico Chokhmà corrisponde alla colonna della Sapienza, il Maestro Venerabile, che la governa e che guida i lavori della loggia ha il delicato compito di consentire, grazie all’armonia del Rito ed alla concordia fra i fratelli, di far sì che in officina vi siano sempre le condizioni affinché ogni libero muratore possa trovare la sua propria Sapienza, o, se si preferisce, il frammento di Verità che gli è più consono.


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mercoledì 7 ottobre 2020

Spigolature massoniche. Il testo di Anton Fox




Il testo tenta di collegare il sacro con il profano, aggiungendo alle conoscenze proprie dell’autore quelle trasmessegli da altri fratelli e sorelle. Ecco perché il libro è stato intitolato Spigolature Massoniche. Spigolature, in quanto cerca di raccogliere sinteticamente alcune tematiche, dalla quotidianità alle problematiche sociali ed economiche; ricercando diversi concetti espressi in diversi testi. Massoniche, perché utilizza alcuni insegnamenti della Massoneria cercando di dimostrarne l’utilità nel mondo attuale.

lunedì 5 ottobre 2020

Ernesto Nathan. Ebreo, Repubblicano, Massone

di Antonino Zarcone



Il 5 ottobre 1845, a Londra, nasce Ernesto Nathan. Ebreo, laico, anticlericale, cosmopolita, repubblicano, mazziniano, iniziato alla Massoneria nel 1887, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia dal 1896 al 1903 e dal 1917 al 1919, membro del Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico ed Accettato, Sindaco di Roma dal 1907 al 1913, il primo estraneo alla classe di proprietari terrieri ed uno dei migliori avuti dalla Capitale, interventista e volontario della Grande Guerra. Muore a Roma il 9 aprile 1921.

venerdì 2 ottobre 2020

Francesco De Luca, garibaldino e massone

di Antonino Zarcone



Il 2 ottobre 1811, a Cardinale, (CZ), nasce Francesco De Luca. Laureato all’università di Napoli in fisica nel 1832 e in diritto civile nel 1835, docente di fisica e matematica, autore di opere di matematica ed economia, avvocato del ministero delle finanze presso la gran corte civile delle Calabria. Di idee liberali, partecipa ai moti napoletani del 1848. Attenzionato dalla polizia borbonica, viene arrestato nel 1852 con l’accusa di “detenzione di carte, stampe e libri criminosi e varie lettere di corrispondenza con persone emigrate”, venendo prosciolto e liberato l’anno seguente. Collaboratore di Garibaldi durante il periodo della dittatura nel 1860, leader della “Sinistra Giovane”, l’anno seguente viene eletto deputato e tra il 1865 ed il 1866 vicepresidente della Camera dei Deputati. Patrocinatore presso la Corte di Cassazione, nel 1862 viene iniziato massone nella Loggia Sebezia di Napoli, all’epoca indipendente. Successivamente affiliato alla Loggia Dante Alighieri, maestro venerabile della loggia napoletana “Masaniello”, dopo le dimissioni di Giuseppe Garibaldi da Gran Maestro, nel 1864 viene nominato reggente e nel 1865 è eletto Gran Maestro del Grande Oriente d’italia. Fondatore del Centro Massonico di Atene, all’obbedienza del Grande Oriente d’italia, muore a Napoli il 2 agosto 1875.

giovedì 1 ottobre 2020

Il Sigillo Templare

 
 

Lunedì 5 ottobre incontro con tematica templare su ZOOM a cui possono partecipare tutti i Compagni e Cavalieri.

Ghevurà, La Colonna della Forza

di Luca Delli Santi

Nella cabala lurianica, ovvero nella dottrina cabalistica sviluppata dal grande Arizal, Isaac ben Solomon Luria ( Gerusalemme  1534 - Safed 25 luglio 1572 ),  uno dei più importanti cabalisti mai vissuti che scrisse molti commentari ai testi sacri ed alle dottrine cabalistiche divenendo un punto di riferimento anche per le scuole di cabala contemporanea, l’atto cosmogonico fondamentale fu lo Tzimtzum, letteralmente una restrizione, la formazione dello “ spazio” in cui il Creatore pose il Creato. Si tratta come si può intuire di un atto di forza, propriamente di una autolimitazione, la manifestazione stessa nasce con un atto legato alla sephira Ghevurà ed alle sue prerogative.
Le caratteristiche  di Ghevurà attengono anche all’assolvimento dei doveri legati all’elargizione della giustizia, uno dei sette precetti noachiti, quelli a cui tutti gli esseri umani sono tenuti a conformarsi, è proprio quello di istituire tribunali ed assicurare l’erogazione di pene quando questo si renda necessario.
Il giudizio, in ebraico Din, contiene insidie, esso può sconfinare nel giudizio severo e determinare squilibri nell’Albero della Vita.
E’ affrontando Ghevurà e le sue possibili precipitazioni nell’Altro Lato che i cabalisti hanno sviluppato la riflessione relativa alla teodicea, ovvero alla natura ed al ruolo del male nell’equilibrio cosmico.
In merito a questa complessa questione accenneremo che Ghevurà, di cui sono espressione anche alcuni episodi cruenti della Tanakh che hanno persino portato a qualche ingenua interpretazione per cui YHWH sarebbe un “dio malvagio e vendicativo”, vanno colti in una logica di rapporto causa-effetto, del tutto analoga al concetto di Karma sviluppato dalle filosofie dharmiche. 
Ghevurà non contiene il “male” in se ma contiene elementi di Din, giudizio severo, che se non equilibrati da Chesed portano ad essere interpretati e vissuti come “male”, perché in effetti dal punto di vista umano sono elementi distruttivi e calamità.
La corrispondenza fra i pianeti e le sephirot associa, in questo caso  per la prima volta in modo unanime fra tutte le scuole di cabala, Ghevurà al pianeta Marte, in ebraico Meadim, da sempre questo pianeta è associato al colore rosso, il colore di questa sephira, che nel corpo umano è anche associata al sangue e negli alimenti al consumo di carne. Meadim vale 95 come pachaz, impetuosità, precipitazione, corrisponde inoltre al nome Daniel, Dio è il mio giudice, nel nome Daniel è contenuta la parola Din. Meadim contiene al suo interno la radice che forma la parola Adom, rosso, come si può osservare le specificità astrologiche e ghematriche di questo pianeta corrispondono a quelle della sephira.
Il patriarca tradizionalmente associato a Ghevurà è Isacco, in Genesi 31 si fa riferimento al “ timore di Isacco” la parola ebraica è pachad, i Midrashim affermano che, senza alcun dubbio, Isacco era consapevole delle intenzioni paterne di sacrificarlo. La Forza qui assume un connotato completamente differente è la capacità di giungere anche all’estremo sacrificio, la fede assoluta, che chiaramente è preceduta dlla pachad, dalla paura, dal timor di Dio, quella particolare sensazione che pervade i mistici quando percepiscono di essere oltre lo stato di percezione ordinaria e che stanno per vivere un’esperienza al di là di ogni categoria percepibile con i sensi ordinari ed interpretabile con categorie esclusivamente razionali.
Nel Chassidismo la qualità attribuita a Ghevurà è la Ir’ha, si tratta di una parola che esprime il concetto di Timor di Dio, arricchendolo di un elemento attivo, infatti siamo di fronte alla qualità del mistico che supera la propria tendenza al male e si porta con costanza nel percorso di ascesa dell’Albero della Vita, siamo nelle prerogative di Ghevurà intesa come autodisciplina, requisito indispensabile per un percorso iniziatico. 
Nel tempio massonico la sephira Ghevurà corrisponde alla colonna della Forza, ma è anche connessa con i concetti di risveglio e perseveranza cui è invitato l’iniziando nel Gabinetto di Riflessione.