mercoledì 28 febbraio 2018

Tiziano Busca: «Di Massoneria c'è ancora bisogno». Il Risorgimento della Tradizione

Tiziano Busca

«Il paradiso è il luogo del non-dove. Cioè è la forma più perfetta di utopia. Qualcosa che non puoi calare nella storia, perché non c’è posto tra gli eventi del mondo. È il luogo dove non c’è spazio, tempo, divenire, dove tutto è perfetto. Dovessimo immaginarci un viaggio spirituale in cui tutto si migliora e tende al suo sviluppo, il paradiso è la fine, il luogo dove ogni singola cosa è arrivata a piena maturazione.
I massoni non sono dei santi. Non sono nemmeno devoti, o almeno non necessariamente. Sono semplicemente operai dello spirito consapevoli di questo ruolo e consapevoli che ogni cosa, dalla ricerca teoretica, all’etica, alla politica, è cantiere. Viviamo in un periodo storico confuso, in cui si è persa l’idea delle competenze, dell’ homo-faber. Ci si immagina che tutti siano in grado di fare tutto e che basti alzare la voce per agevolare le cose secondo il loro destino. È un momento storico in cui c’è bisogno di più Massoneria in società. L’alternativa ai cantieri sono le costruzioni. Oppure sono le macerie».
Sono parole di Tiziano Busca, Sommo Sacerdote del Gran Capitolo dei Liberi Muratori dell'Arco Reale - Rito di York in Italia.

Kipling, la poesia, la Massoneria



L'etica e la simbologia della libera muratoria universale permeano buona parte della sterminata produzione letteraria di Rudyard Kipling che venne iniziato nel 1886. Questa antologia, curata e tradotta da Davide Riboli, raccoglie poesie note e meno note del grande autore inglese, apertamente ispirate agli insegnamenti ed ai valori massonici. La raccolta presenta i testi originali e la traduzione italiana commentata. Prossimamente in libreria.

lunedì 26 febbraio 2018

Tiziano Busca ai 5 Stelle: «La storia siamo noi»

Tiziano Busca


«La massoneria è un simbolismo in movimento con i valori della libertà della tolleranza e della fraternità tra uomini diversi ma con una comune energia per i valori etici morali e dei diritti del vivere civile. Le affermazioni del leader del movimento 5 stelle testimonia il congelamento delle intelligenze e la non conoscenza della storia e di in questo Paese ha fatto la storia: da Garibaldi alla Costituente è una storia di Uomini Liberi e Ribelli, una storia di Massoni. La storia siamo noi. Anche domani». Sono le parole del Sommo Sacerdote del Gran Capitolo dei LLMM dell'Arco Reale - Rito di York Tiziano Busca in un intervento nella Loggia Garibaldi di Roma qualche giorno fa.

Il Risorgimento della Tradizione. Quarto appuntamento dedicato alla natura femminile di Dio


Il mito dell'Arca. In libreria John William Lake



«Scopo di questo pamphlet è quello di mostrare che la storia del Diluvio è mera materia di antiche tradizioni e soltanto un altro modo di esprimere antiche favole. Ma le favole dell’antichità hanno per la maggior parte un interesse religioso, filosofico o mitologico. Come già gli antichi Egizi espressero la loro saggezza con i geroglifici, così tutte le gerarchie sacerdotali velarono la loro conoscenza in apologhi o fiabe. Come certi insegnamenti morali che, ai nostri giorni, sono espressi per parabole, così la saggezza del mondo antico trovava espressione nelle favole. Dove i moderni scriverebbero un saggio, gli antichi maestri avrebbero raccontato una storia, ed è possibile che da questa consuetudine il termine storia sia diventato talmente equivoco da stare sia per narrazione di fatti realmente accaduti, che per falsità o fantasia». Prossimamente in libreria per Tipheret - Gruppo Editoriale Bonanno.

giovedì 22 febbraio 2018

In libreria l'Anacrise di Pelagius



«Ou-topica è la dimensione dell’Angelo», scriveva Massimo Cacciari in quelle che per me sono tra le sue pagine migliori. «Il suo luogo è il Paese-del-non-dove, quarta dimensio oltre la sfera che delimita gli assi del cosmo visibile, mundus imaginalis. La strada che vi conduce nessuno saprebbe indicare. L’Angelo soltanto, custode del Verbo divino, archetipo dell’ad-verbum, intermediario necessario a tutti i profeti fino a Maometto, può compiere lunghi viaggi da quel Non-dove invisibile, dal suo Caelum Caeli». Nelle prossime settimane in libreria, a cura di Mauro Cascio, un classico del XV secolo. Tipheret - Gruppo Editoriale Bonanno .

mercoledì 21 febbraio 2018

Innovazione tra luce e ombra. Venerdì l'appuntamento allo IASSP



A Milano questo venerdì allo IASSP - L'Istituto di Alti Studi Strategici e Politici per affrontare il tema «Innovazione tra luce e ombra» con Giulio Giorello, Massimo Fini, Luca Sofri, Massimo Della Porta, Alberto Stuflesser, Paolo Berra. Presiederà Ivan Rizzi.

Maggiori informazioni qui

martedì 20 febbraio 2018

La mistica islamica

di Nuccio Puglisi



La via mistica o via spirituale è la dimensione interiore di cui la rispettiva religione è l’espressione esteriore. Non si può essere Francescani senza essere Cristiani, né Sufi senza essere Musulmani. Non vi è Sufismo senza Islam.
Uno studio attento della mistica islamica rivela che il suo fondamento primo o il suo punto di partenza deve essere ricercato prima di tutto proprio nella stessa professione di base della fede islamica, cioè la testimonianza e la coscienza dell’assoluta Unità ed Unicità di Dio (tawhîd):

Non c’è dio se non il Dio (Allâh).

È questa formula continuamente ripetuta che plasma la vita, la coscienza e il pensiero del musulmano. È questa anche la sorgente dell’esperienza dei mistici dell’Islam, i sufi e questo spiega anche il perché non si può essere sufi se non si è musulmani.


Islamismo radicale

L’islamismo radicale non e un movimento religioso ma è il modo in cui alcuni gruppi esprimono la loro barbarica rabbia politica utilizzando a questo fine una certa interpretazione della religione. Gli atti terroristici sono perpetrati da individui che seguono una ideologia settaria che non rappresenta la religione musulmana ed alcuni individui che si imbottiscono di tritolo facendosi esplodere in luoghi affollati, non sono altro che persone, plagiate da gente senza scrupoli, che hanno l’illusione di combattere e morire per un Dio che invece li condannerà.
È bene sottolineare che per l’Islam la vita e la morte sono dei decreti divini. Il Corano, a questo proposito, e abbastanza chiaro:

Non sono i genitori che danno la vita, bensi formano il ricettacolo
carnale atto a riceverla da Dio (Cor. 46,13).

Questo è il motivo per cui il Corano condanna  più volte il suicidio consapevolmente voluto, ed il suicida andrà inevitabilmente all’inferno per aver contravvenuto ad un decreto che spetta solo a Dio.
Come giustamente faceva notare il prof. Gabriele Mandel nel corso delle sue innumerevoli opere e conferenze, l’Islam non si presenta come un blocco monolitico, in quanto esistono numerose fazioni: sciti e sunniti, gruppi antichi minoritari quali kharagiriti, zayaditi, drusi, alawiti. C’è inoltre un movimento di secolarizzazione in epoca moderna tipo salafismo e wahhabismo suddiviso in molte correnti quali fratelli musulmani, talebani etc.
Il Salafismo, che prende origine dalla parola araba salaf cioè antichi/antenati, propugna il ritorno ad un Islam puro, quello riferibile ai primi anni dopo la morte del Profeta ritenendo che nel corso dei secoli a seguito delle dominazioni straniere e della collusione con il mondo occidentale, la religione abbia perso le sue caratteristiche originarie. I garanti e gli assertori di un Islam puro sono quelli che implicano anche un ricorso ideologico al jihad come strumento di difesa (della nazione islamica) e poi di offesa (contro questo contagio sociale esterno).
È una dottrina evolutiva che fornisce alibi ai fondamentalisti musulmani nella lotta contro la modernizzazione, la decadenza dei costumi e la globalizzazione e che oggi, nelle sue forme più deleterie, postula l’attività terroristica.
Anche dal punto di vista politico esistono delle differenze nei posti in cui l’Islam è religione di Stato. Ad esempio l’Iran (a maggioranza scita) è una repubblica coranica, che si affida totalmente a un capo spirituale, la Turchia, negli anni ’20, abrogò la legge coranica e sancì la separazione tra potere religioso e stato, in Libia ed in Iraq, prima della caduta di Gheddafi e di Saddam Hussein vigeva addirittura un regime socialista.
Ognuna delle fazioni religiose e delle relative correnti, come vediamo, ha una sua storia ed anche un suo modo di intendere la religione così come uno Stato segue le proprie leggi in relazione alla propria struttura giuridica; se tutte queste differenze non si conoscono, ecco che un approccio superficiale all’Islam risulta oltremodo difficoltoso generando una notevole confusione.


Quali sono i modi per avvicinarsi alla mistica islamica?

Sono vari i modi secondo i quali ci si può avvicinare allo studio della mistica islamica, innanzi tutto abbiamo l’approccio dello stesso Sufi che considera la sua via o metodo come autentiche espressioni della spiritualità islamica che, in quanto tali, sono iniziate con il Profeta Muhammad e che da sempre hanno costituito parte integrante nella tradizione spirituale dell’Islam. Studiare il Sufismo su fonti esclusivamente sufiche presuppone però, una solida conoscenza della religione islamica in generale e preferibilmente anche la conoscenza di una delle sue lingue originali.
In secondo luogo, si possono studiare le numerose opere scritte dagli orientalisti occidentali, alcune delle quali abbastanza coscienziose e informative ma che mancano quasi completamente di qualsiasi valutazione del gusto sperimentale del Sufismo, essenziale per una sua adeguata comprensione. Questo tipo di approccio comporta generalmente l’idea errata che il Sufismo sia qualcosa di essenzialmente estraneo all’Islam e che vi sia stato trapiantato desumendolo da altre religioni.
Il terzo approccio, che potremo definire universalista, è quello che considera l’Islam e il Sufismo come manifestazioni particolari degli universali aneliti umani verso il soprannaturale e lo spirituale.
Ognuno si approccia allo studio di questa cultura esoterica in relazione a quella che è la sua cultura di base e al suo credo religioso anche se, nella maggior parte dei casi, particolarmente gli occidentali, hanno un approccio universalista.
Nell’Islam l’aspetto essoterico e quello esoterico sono ben distinti anche se hanno tra loro una relazione ben precisa che può essere descritta meglio nel modo seguente: la religione esteriore o essoterica (conosciuta nell’Islam come la Shari’a) può essere paragonata alla circonferenza di un cerchio; la Verità interiore o esoterica, che rappresenta il nocciolo della religione (conosciuta nell’Islam come haqiqa) può, invece, essere paragonata al centro del cerchio. Il raggio che va dalla circonferenza al centro rappresenta la via mistica o “iniziatica” (tariqa) che conduce dall’osservanza esteriore alla convinzione interiore, dalla fede alla visione, dalla potenza all’atto.
La Sharì’a è la religione “esteriore” accessibile e indispensabile a tutti, la tariqa è riservata solo a coloro che ne possiedono la vocazione necessaria.


Dialogo con altre religioni

Il concetto di dialogo è abbastanza chiaro nel dettato del Corano, il quale lo rende evidente ma, soprattutto, invita al costante rispetto dell’altro. Dice il Corano:

Se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità. Ma vuole provarvi con ciò che vi ha dato. Gareggiate, dunque, (reciprocamente) nelle opere buone. Tutti tornerete a Dio, che allora vi informerà su ciò su cui divergete.

Junaid, maestro sufi del nono secolo disse: «Il colore dell’acqua è il colore del suo recipiente», intendendo che tutte le religioni e tutte le culture sono eguali; differiscono per ambiente, nome e ritualistica, ma non possono differire nella sostanza.
La divinità assoluta, non può essere contenuta in una cosa perché è l’origine e l’essenza di tutte le cose e, quindi anche di tutte le religioni. Più ci si avvicina a Dio e più si capisce che tutte le religioni sono tentativi per avvicinarLo.
Ogni popolo ha una sua religione spesso facente capo ad un testo ritenuto sacro. Gli ebrei hanno la Torah, i cristiani la Bibbia, i musulmani il Corano. Tra questi libri è il Corano ad affermare in modo esplicito ed inequivocabile che ogni popolo ha i suoi profeti e le sue sacre scritture di pari dignità tra loro. Per esso la rivelazione divina è universale: «Erano un tempo, gli uomini una nazione sola, e Dio mandò i profeti, araldi e ammonitori, e con loro rivelò il Libro pieno di Verità» (Cor. 2,213).
Per il Corano, quindi, non è tanto una specifica pratica religiosa esteriore che ha importanza, quanto piuttosto, il credere in Dio ed avere un comportamento retto e generoso. A proposito del rispetto interreligioso dice:

Nessuna costrizione in fatto di religione

ed ancora:

Il Giorno del Giudizio universale vedrai ogni comunità inginocchiata dietro al suo Libro sacro; ed allora verrete giudicati sulla base delle vostre azioni.

Giudicati dunque in base alla nostre azioni, non in base al credo religioso. Nel Corano c’è proprio una esortazione al dialogo con persone di altro credo religioso ed esattamente in 29-46:

Con le genti del Libro dialogate in modo cortese e dite loro: crediamo in ciò che è stato rivelato a voi ed in ciò che è stato rivelato a noi, il nostro Dio è lo stesso vostro Dio. A Lui noi siamo sottomessi.

Jalail.al-Din Rumi grande mistico sufi scrisse:

Le vie sono diverse, la meta è unica. Non sai che molte vie conducono ad una sola meta? La meta non appartiene né alla miscredenza né alla fede; lì non sussiste contraddizione alcuna. Quando la gente vi giunge, le dispute, le controversie che sorsero durante il cammino si appianano; e chi diceva l’un altro durante la strada “tu sei empio” dimentica allora il litigio perché la meta è unica.

Facendo una panoramica sulle tre principali religioni monoteiste i Sufi riconoscono che l’Ebraismo è la religione della Speranza, il Cristianesimo è la religione dell’Amore, l’Islam la religione della Fede.
Fede, Speranza ed Amore, origini della mistica, della spiritualità, dei valori sublimati che ci conducono alla comprensione di Dio.
La comprensione dei “valori dell’altro” il giusto equilibrio tra tolleranza e reciproca conoscenza, sono i valori che possono restituire al mondo la pace che cercano tutti gli uomini di buona volontà.




Che cosa è il Sufismo?

A questa domanda risponde Si Hama Boubakeur ex rettore dell’Università islamica di Parigi.

Il Sufismo in se stesso non è né una Scuola telogico-giuridica, né uno scisma, né una setta, anche se si pone al di sopra di ogni obbedienza.
È innanzi tutto un metodo islamico di perfezionamento interiore, di equilibrio, una fonte di fervore profondamente vissuto e gradualmente ascendente. Lungi dall’essere una innovazione o una via divergente parallela alle pratiche canoniche, è anzitutto una marcia risoluta di una categoria di anime privilegiate, prese, assetate di Dio mosse dalla scossa della Sua Grazia per vivere solo per Lui e grazie a Lui nel quadro della Sua legge meditata, interiorizzata, sperimentata.
Sono numerose le definizioni di Sufismo che si trovano nei libri arabi e persiani che trattano dell’argomento ma risulta oltremodo difficile darne una definizione universale in quanto non si può concepire una formula capace di comprendere tutte le sfumature di un sentimento religioso intimo e personale.
Se domandassimo a dei maestri la definizione di sufi ed in cosa consiste, ognuno di loro risponderebbe in maniera differente.
La parola “Sufi” ha una triplice etimologia:
1. gli ahl us-Suffa erano “quelli della veranda”, i Compagni del Profeta Muhammad che avevano lasciato tutto pur di vivere quanto più vicino al Profeta. Risiedevano sotto una veranda fuori della casa di Aysha. Quando il Profeta usciva erano i primi a incontrarlo, quando riceveva un dono lo divideva con loro. Vivevano senza possedere nulla ed in continui digiuni e devozioni.
2. Suf vuol dire lana. I Sufi dei primi secoli erano asceti che vivevano nei deserti vestiti di una lunga tunica di lana
3. Safa vuol dire purezza: i Sufi sono i Puri.


La dottrina dei Sufi

Le componenti della dottrina sufi sono l’amore totale per Dio; la gnosi che superando la conoscenza intellettuale imperfetta e incompleta unisce direttamente il sufi al divino, da cui la certezza della Sua esistenza e dell’impossibilità di capirLo con le sole forze umane; il raggiungimento della conoscenza intuitiva; l’ascesa mistica attraverso una serie di stati e di stazioni, integrati dalla rammemorazione (dhikr) e dall’estasi ( fana)

Il termine fanà include differenti stadi, aspetti e significati che possono essere così riassunti:

1) una trasformazione morale dell’anima per mezzo dell’estinzione di tutte le sue passioni e dei desideri.
2) Una astrazione mentale o un trascendere della mente oltre tutti gli oggetti della percezione, i pensieri, le azioni, i sentimenti, per mezzo della sua concentrazione
nel pensiero di Dio.
3) La cessazione di ogni pensiero cosciente. Il più alto stadio di fana è conseguito quando scompare anche la coscienza di aver raggiunto fana. Questo è quello che i Sufi chiamano “trascendere il trascendere” (fana al-fana) .
Il mistico è allora rapito nella contemplazione dell’essenza divina.

La condizione di estasi può essere raggiunta non solo con la meditazione o la concentrazione ma anche con la musica, il canto e la danza.
Secondo una credenza mistica ben nota, Dio ha ispirato ogni creatura di lodarlo nel suo proprio linguaggio, così che tutti i suoni dell’universo formano un vasto inno corale con il quale Egli è glorificato; conseguentemente, coloro ai quali Egli ha aperto il cuore e che ha dotato della percezione spirituale odono la sua voce per ogni dove e vengono sopraffatti dall’estasi quando ascoltano il canto ritmico del muezzin o il grido che lancia nella via il saqqa che porta a spalla il suo otre di acqua.
A Pitagora e a Platone viene riferita un’altra teoria a cui i Sufi alludono frequentemente, secondo la quale la musica risveglia nell’anima la memoria di celestiali armonie udite in uno stato di pre-esistenza, prima che l’anima fosse separata da Dio.
Le virtù dei sufi sono principalmente: conoscenza, coerenza, perseveranza, rispetto a cui vanno aggiunte pazienza, rinuncia, sincerità, accettazione ed umiltà consapevole; il tutto costantemente, retto dall’equilibrio.
Il sufi realizzato è quindi libero da ogni tipo di simbiosi, e il suo rapporto con il mondo esterno è un corretto rapporto adulto e non simbiotico. Il fine ultimo è il raggiungimento, attraverso l’illuminazione, di una realizzazione personale che disveli a ciascuno di noi la scintilla divina che è in noi: ossia la consapevolezza del divino avendo superato i veli dell’ignoranza.
Soffermiamoci sull’umiltà.
L’umiltà inizia dove una precisa considerazione del sé ha stabilito in termini chiari il valore dell’individuo e la sua realtà fenomenica. Non si può essere umili se non si conosce se stessi e non si dà a se stessi la collocazione precisa nella vita comune e nell’escatologia (“nel mondo ma non del mondo”).
Il cammino è irto di difficoltà e non è breve, in quanto comporta l’unione sia della parte materiale che di quella spirituale; raggiungimento della spiritualità attraverso la materialità, non con il distacco della materialità; è un cammino che deve trovare costantemente il proprio equilibrio anzi l’equilibrio fra i continui squilibri del mondo esterno (si noti, la somiglianza con la via alchemica in cui la fase più importante è rappresentata dal raggiungimento dell’equilibrio mediante la materializzazione dello spirito e la spiritualizzazione della materia).
Per poter progredire verso Perfezione, l’individuo deve, prima di tutto, cambiare il suo modo negativo di pensare e tramutare le sue passioni in virtù. Perché ciò avvenga bisogna armonizzarsi con la Natura Divina. Questa via d’Armonia (la Via Spirituale), consiste nella povertà spirituale; nella devozione e nel ricordo costante di Dio; totalmente dimentico di sé. In questo modo, l’individuo percepisce la Verità quale essa è veramente.


Le Confraternite Sufi

Dal momento in cui molti credenti iniziarono a sentire il bisogno di una sicura e sperimentata guida nel loro cammino mistico, nascono le “vie” (in arabo: turuk) dette anche confraternite o ordini Sufi, che presero il nome dai loro fondatori.
Queste confraternite oltre ad organizzarsi attorno ad un Maestro, adottano anche un determinato ordine o regola di vita, ritmato da pratiche spirituali e da un certo tipo di vita in comune.
L’organizzazione delle Confraternite consiste in gruppi di musulmani anelanti a Dio, iniziati dal capo della Confraternita, che è l’erede diretto del carisma (la baraka) trasmessogli dal fondatore della Confraternita stessa; e a volte può esserne anche l’erede per sangue.
Ai tempi del Profeta, il nome “Sufi” ancora non veniva usato, ma la realtà già esisteva. Il Profeta conferì questo rito (dando la corrispondente istruzione) solo ad alcuni dei suoi Compagni. Dal capo della Confraternita si risale al fondatore attraverso una serie precedente di Capi, in una catena precisa e ininterrotta, la salsalat âlWird (o silsila). Il fondatore ha trasmesso loro una particolare preghiera rituale (wird, o hizb), costituente il fondamento del rituale comune; e un testamento mistico, o “raccomandazione” (wasiya).
I vari metodi sufici di realizzazione spirituale, non possono essere validamente praticati senza iniziazione e senza il consiglio di uno shaykh o maestro; il farlo comporterebbe un pericoloso rischio spirituale.
Il sufi (apprendista, compagno o maestro) fa quindi parte di una tekké e partecipa alle riunioni rituali (hadra). Esse sono di due tipi: una è dedicata alle discussioni, ai postulati, alle delucidazioni, all’istruzione, a quant’altro il Maestro ritiene necessario per la progressione spirituale; ed una è dedicata al dhikr collettivo. È abbastanza normale, in queste riunioni, iniziare con la preghiera comunitaria e con il pasto in comune. In varie Confraternite – non in tutte comunque – il dhikr comprende musica, canto e danza, una danza collettiva che spesso è chiamata âlZohd (l’ascesi).
 Le confraternite sufi hanno avuto, inoltre, un ruolo molto importante anche nella educazione e nella formazione dei credenti e nella inculturazione dell’Islam nei vari popoli, infatti, attraverso questi ordini, l’Islam si è adattato alla diverse culture in cui è penetrato adottandone le caratteristiche locali.
Questo spiega il perché di una varietà di comportamenti rituali, di preminenze dialettiche a volte anche tra le varie Confraternite, fermo restando che: “Tutte le strade conducono ad una unica meta”.


Il sema dei Sufi Mevlevi o dervisci giranti

I dervisci realizzano nel sema ciò che San Tommaso d’Aquino diceva a proposito del corpo e dell’anima. Egli sosteneva che il corpo è nell’anima e non tanto l’anima nel corpo.
Ora i dervisci con la loro danza estatica insegnano che il corpo vive del flusso creatore di cui vive l’anima. Il primato dello spirituale sul corporeo diventa evidente nel fatto che se l’anima gioisce dell’ascolto della Parola divina e dell’energia contenuta nell’Universo, il corpo danzante è l’immagine della spiritualizzazione del corpo.

Al Ney è legata una leggenda:

Un giorno Maometto comunica suo genero Alì i segreti che gli furono rivelati durante il viaggio in cielo. Questi non riesce a sopportarne il peso e li grida dentro ad una cisterna. Così la canna che cresce li accanto viene a saperli. Allontanata dalla cisterna e tramutata in uno strumento, quando riceve il soffio fa risuonare i segreti divini.
Questa leggenda ha un alto valore simbolico, in Rumi, la cisterna è il simbolo del luogo in cui l’anima è imprigionata, sia esso il corpo o il mondo. La via d’uscita da questa prigione è data dall’annullamento dell’Ego, che è possibile attraverso l’abnegazione amorevole, sempre connessa con il dolore. La forza che da la capacità della dedizione è l’amore disposto al supplizio più estremo. Chi ascolta il flauto viene stimolato verso quello stato animico che lo mette in grado di sciogliersi allo stesso modo e con ciò trovare l’accesso verso un mondo più interiore.
Il Ney è il simbolo dell’uomo gnostico, dentro è cavo e quindi ha raggiunto lo stadio dell’annullamento dell’Ego, l’alito di colui che lo suona, soffia è paragonabile al respiro di Dio quando svegliò Adamo alla vita. La canna, come l’uomo, è separata dalla sua casa di origine, il canneto; consapevole della sua origine divina, l’uomo ha nostalgia di casa e il suo dolore per la separazione, è espresso attraverso i toni lamentosi del flauto.

Lo Shayk  ha un caratteristico copricapo nero avvolto da un turbante nero, simbolo del suo grado, (o verde se ha compiuto il pellegrinaggio alla Mecca), mentre i danzatori hanno un alto cappello di feltro marrone, che simboleggia la loro pietra tombale.
A passi lenti, i danzatori percorrono in senso antiorario la circonferenza della danza ( come avviene in tutte le circumbulazioni attraverso a luoghi sacri e nella Ka’ba) per tre volte, avanzando con passo puntato al ritmo dei tamburi, mentre, sempre a ritmo ripetono interiormente il nome di Al-lah.
Questo è il devr-i Veledi: il circolo del sultano Veled, e i tre giri della sala e questi saluti simbolizzano l’elevazione dei livelli di consapevolezza nei tre valori di ‘ilm alYakin, ( Scienza della Certezza o conoscenza esteriore delle cosa manifestate )  ‘ayn alYakin, ( Visione della Certezza o certezza basata sulla percezione sensoriale diretta ) e  haqq alYakin ( la Verità della Certezza  o certezza basata sulla esperienza individuale).

Dopo avere percorso per tre volte la circonferenza di danza, i danzatori si fermano su un lato lungo ed ha luogo, con un breve inchino, lo scambio reciproco dei saluti.
Il capo dei danzatori ( semazen bash) raggiunto il vello fa un inchino, supera con tre passi la linea centrale della circonferenza di danza e si volta indietro trovandosi così “faccia a faccia” con il successivo danzatore, entrambi guardano “la bellezza del mondo di Dio negli occhi dell’altro” e si inchinano l’un altro a simboleggiare il saluto che tutte le anime nascoste nelle forme e nei corpi si scambiano in segno di fratellanza. Il Semazen bash prosegue dietro lo Shaikh ed il danzatore con il quale si era trovato “faccia a faccia” varca anch’egli l’equatore con tre passi si volta verso chi lo segue ripetendo lo stesso rito e così via.
A questo punto inizia la vera e propria musica per la danza rotante, i semazen baciano la kirqa (il mantello nero) e la lasciano cadere a terra dietro di sé ed assumono la posizione definita di umiltà (niyaz vaziyeti )  cioè incrociando le braccia sul petto, la mano sinistra sulla spalla destra e la mano destra sulla spalla sinistra che nella grafia araba  sta a significare il termine Allah .
Ad uno ad uno i danzatori si dirigono verso il maestro,  ricevono un bacio sul bordo del copricapo di feltro e cominciano a roteare sul proprio asse avanzando lungo la circonferenza e, dopo aver allargato le braccia, sempre roteando su se stessi iniziano a girare attorno alla sala con la mano destra volta al cielo per ricevere i doni di Dio e la mano sinistra volta alla terra per dispensare a tutti i doni ricevuti da Dio.
Il semazen bash cura che, ruotando, i semazen non si disturbino a vicenda e mantengano la giusta distanza.
Questa cerimonia è ripetuta integralmente quattro volte, cioè per quattro “saluti” interrotti ciascuno da un arresto della musica ed in ciascuno delle quattro fasi di danza che si susseguono, procedono di un gradino verso la conoscenza e l’avvicinamento a Dio.
Sul finire del quarto selam  il Maestro (Shayk) si allontana dal vello e compie a piccoli e lenti passi un breve percorso davanti a sé, girando su se stesso e tenendo tirato con la mano destra il bavero del mantello. Egli ruota al centro del cerchio della danza ed è un tutt’uno con il qtub (l’asse) che unisce la terra (area della danza) con il cielo (la cupola) sopra di lui. Simboleggia il completamento del “viaggio mistico” con il raggiungimento della Gnosi ( Ma’rifa, la conoscenza mistica suprema); ed il ritorno sulla terra dell’anima che, sottraendosi allo stato di estasi, accetta di nuovo la prigionia della materia fisica dopo l’ebbrezza della luce divina.
Il viaggio mistico è terminato ed il Sufi “morto prima di morire” ha testimoniato materia e spirito, essenza reale e transitorietà fenomenica.
Lungo la via sufica del perfezionamento di sé, quindi,  sono quattro i viaggi interiori, che i dervisci percorrono dal primo all’ultimo selam.

Il primo “saluto” simboleggia la nascita dell’essere umano alla verità, cui giunge, grazie al ragionamento, ad una formale presa di coscienza che lo rende consapevole dell’esistenza di Dio.
Il secondo “ saluto” simboleggia il raggiungimento di una consapevolezza superiore, in cui l’essere umano sente la Potenza di Dio attraverso lo splendore della Sua creazione.
Nel terzo “saluto” l’essere umano giunge a Dio eliminandosi in Lui ( fana), ed è l’estasi, il superamento di ogni transitorietà fenomenica.
Il quarto “saluto” simboleggia il ritorno sulla terra dallo stato estatico e l’accettazione della materia dopo l’ebbrezza della luce divina.
Riepilogando, durante il semà, i dervisci percorrono la via dell’intuizione, dell’eccitamento e del movimento interiore ( processione ), passano per l’estasi e la dedizione giungendo al dissolvimento (dal primo al quarto selam ), poi gradualmente ridiscendono ed infine escono per tornare nel creato, per essere “nel mondo ma non del mondo”, nella silenziosa consapevolezza del mistero di manifestazione che hanno sperimentato.
Nell’ultima fase della cerimonia, lo Shaikh ritorna lentamente al vello e la danza è terminata.  I danzatori indossano nuovamente la kirqa. Il capo dei danzatori  dice una preghiera di ringraziamento e di benedizione ( post du’asi ),e la recitazione del Corano. In particolare è recitato il passo coranico 2° 1-4 ed il Versetto 2°115: «A Dio l’Oriente e l’Occidente. Ovunque vi volgiate quindi là è il volto ( l’essenza) di Dio. Si: Dio è l’immenso e il sapiente».
Nel silenzio generale il qtub talvolta  pronuncia, talvolta, un  ultima preghiera  per tutti i profeti e per tutte le anime dei credenti ( Mevlevi Gulanky), e la fatiha , la prima sura del Corano che si conclude con le parole:  «Hu diyelim» ( Noi Lo vediamo ).  Tutti  allora esclamano Hu ( Egli, Dio, in assoluto), chiudendo il rito con questa affermazione che trascende il vocabolo “Dio” a significare il superamento di ogni descrizione possibile della divinità da parte dell’essere umano.


Sufismo e Massoneria

La massoneria riprende, per certi versi,  gli antichi temi del sufismo compreso quello mistico, poiché il Grande Architetto dell’Universo non può essere esaurito da nessuna religione e da nessuna credenza, solo una “cerca” personale può permettere di non essere intrappolati dalle credenze del tramandato.
La massoneria ha avuto come principio il dar la possibilità di agire e di riunirsi a tutti coloro che aldilà delle fedi volevano impegnarsi per cercare la verità, la giustizia, una evoluzione umana cominciando imprescindibilmente da loro stessi.
Il Guénon rivelò poi di avere ricevuto dallo Sheik Elish El Kebir della Confraternita Sufi Chadhilyya fondamentali insegnamenti sul simbolismo muratorio della Squadra, Livella, Triangolo e Compasso e di aver verificato sorprendenti analogie tra il lavoro muratorio e l’operatività delle Confraternite Sufi quale, ad esempio, la necessaria presenza di almeno sette confratelli per la pratica del Dhikr.
Il Sufismo è costituito in Ordini, o Confraternite. Confraternite ben organizzate sin dal X secolo. Un Maestro venerabile, due luci, un copritore esterno, e gli adepti, che si distinguono in apprendisti (murid), compagni (‘arîf: iniziato) e maestri (Shayk). Si riuniscono in una tekké, o zawiyya, o dergah: una Loggia.
Per entrare nell’ ordine, il neofita si sottopone a una iniziazione, che comporta anzitutto il ritiro (khalwa) in un gabinetto di meditazione, ritiro che a seconda degli Ordini va dai tre ai quaranta giorni. Riceve allora la parola segreta di rito, i passi e le insegne del suo lavoro. Presso i Bektashi l’iniziando è condotto nella loggia con una corda al collo (tigbend) e ricevuto, è cinto dal grembiule (peshtemal), che viene mutato ad ogni aumento di salario.
I lavori si aprono idealmente a mezzogiorno e si chiudono idealmente a mezzanotte.
I parallelismi non si limitano qui. In tutta la letteratura dei maestri sufi, ricchissima, si trovano concetti, simboli, rituali, che possono essere accostati a concetti, simboli e rituali massonici.
Concludendo, si può dunque ragionevolmente affermare che il Sufismo ha certamente avuto influenza su diversi aspetti del Lavoro Muratorio o, per meglio dire, tra questi due Soggetti esistono diversi punti in comune poiché, ciò che appartiene alla Tradizione, è Tradizione essa stessa, come Guénon amava dire.
In definitiva la Massoneria è un grande veicolo, una summa degli insegnamenti tradizionali ove convergono aspetti provenienti da diverse dottrine, ma con l’unico scopo di portare l’uomo alla elevazione spirituale in modo che egli contribuisca al miglioramento del mondo in cui vive.

Da oggi in distribuzione «La Teodicea della Qabalah» di Francis Warrain



È in distribuzione da oggi uno dei libri più attesi della stagione. Dopo quasi vent'anni dalla sua prima edizione italiana, a cura di Mauro Cascio e Federico Pignatelli, torna in libreria «La Teodicea della Qabalah» di Francis Warrain, uno strumento-guida indispensabile per capire una delle tradizioni più importanti dell'Occidente iniziatico.

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lunedì 19 febbraio 2018

A Crotone il Risorgimento della Tradizione



Tiziano Busca

Un altro grande appuntamento di cultura e formazione iniziatica. «Anche se la cultura non la fanno i libri. Lo studio ci può aiutare», ha detto il Sommo Sacerdote Tiziano Busca nel seminario a Crotone, «Ma nessuna lettura può fare il lavoro al posto nostro. Non è un caso che la trasmissione della Tradizione sia spesso consistita nel bocca-orecchio e che grandi maestri, da Pitagora a Socrate e Gesù non abbiano lasciato mai niente di scritto».

Mauro Cascio

La citazione di Pitagora non è stata casuale. Perché si è voluto parlare di Tradizione proprio nei luoghi che la Tradizione ha abitato. Ci ha pensato Mauro Cascio, dopo un'introduzione di Luca Delli Santi, a leggere un passo dal De Arte Cabalistica di Reuchlin, per spiegare come e in che senso Pitagora e la sua scuola fossero stati autenticamente 'tradizionali', abbiano cioè espresso storicamente la 'tradizione filosofica' una e primigenia, che ha tante forme nella geografia dell'uomo, a seconda delle culture che la esprimono. E la cabala prende le mosse da un'unica sapienzialità ed ha il merito storico di averla trasmessa nei secoli all'interno della tradizione ebraica. Il filosofo pontino ha così provveduto ad analizzare cabalisticamente alcuni aspetti del rituale (le dodici tribù di Israele, il Tabernacolo), per completare uno studio che era già stato proposto a Milano, Roma e Benevento. Enzo Heffler ha provveduto a contestualizzare l'esoterismo all'interno della prassi religiosa ebraica.

Enzo Heffler


Massimo Agostini

Illuminante come sempre l'intervento di Massimo Agostini, che si è soffermato sul 'femminile', aspetto tradizionale a cui ha dedicato la sua attività di ricercatore e saggista. Le sue considerazioni sono state completate da Nuccio Puglisi, che ha fornito una lettura 'alchemica'.

Nuccio Puglisi

Federico Pignatelli ha infine dato il suo prezioso contributo parlando di Shekinah, cioè del lato femminile di Dio, la 'presenza' divina nel mondo secondo la cultura cabalistica. Una ricchezza che ha nutrito tutti i presenti di strutturato stupore.

Federico Pignatelli

Il Rito di York ad Amantea



Una presenza che si consolida anche in Calabria, quella del Rito di York. Alla presenza del Sommo Sacerdote Tiziano Busca si sono aperti i lavori del Capitolo Diapason ad Amantea, con l'installazione delle cariche della nuova commenda Skidros-Locanto di Scalea e costituito un nuovo Capitolo intitolato a Stolper, una figura importantissima per la Massoneria italiana. Soprattutto l'occasione per ritornare sul ricco simbolismo del Rito che è stato illustrato nel dettaglio proprio da Busca, che ha condotto i lavori e da Massimo Agostini, Gran Dignitario della Gran Commenda.
Tutto questo grazie al pregevole lavoro dell'EGS di Cosenza Giuseppe Di Munno e di quello di Scalea Franco Cetraro. Altro elemento importante è la costituzione del triangolo a Castrovillari, per la nascita di un altro capitolo dello York. Un lavoro di sinergie e di progetti che attraverso l'azione del Gran Reggente Domenico Bigotta e del Deputy Maurizio Barberio, del Gran Consigliere Elio Vitaro stanno portando a conclusione un progetto di crescita in Calabria, al pari di quanto sta accadendo in altre regioni.
«Un viaggio che dal tempio sta aggregando nel percorso forze giovani, ricche di curiosità iniziatica e soprattutto di valore nel ruolo della Maestria, ben sapendo che nello York si è sempre e solo Maestri tra pari e che la differenze è sul piano sottile della Conoscenza della Parola. La carta di identità della Tradizione che accompagna i valori etici e morali di una comunione che si rinnova nel Risorgimento della Tradizione».

venerdì 16 febbraio 2018

Il discepolo più amato da Gesù

di Antonio Bove




È un sentire comune che il discepolo che Gesù amava era Giovanni e questo lo si ricava dalla lettura di brani dello stesso Vangelo di San Giovanni:
Giovanni 13,23: “Ora, a tavola, inclinato sul petto di Gesù, stava uno dei discepoli, quello che Gesù amava”.
Giovanni 19,26: “Gesù dunque, vedendo sua madre e presso di lei il discepolo che egli amava, disse a sua madre: «Donna, ecco tuo figlio!»”.
Giovanni 20,1-10: “Allora (Maria Maddalena) corse verso Simon Pietro e l'altro discepolo che Gesù amava e disse loro: «Hanno tolto il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’abbiano messo»”.
Per citarne solo alcuni.
Se Giovanni era quindi il discepolo più amato, secondo una ideale graduatoria che coinvolge tutti i discepoli, in contrapposizione a questa figura dovrebbe esserci quello del meno amato ed è facile pensare a Giuda.
Tutto risolto quindi, tutto chiaro, tutto normale, come si potrebbe diversamente affermare il contrario? La mia ricerca sarebbe così e molto facilmente terminata, con ancora due parole su Giovanni prese qua e là dalle Sacre Scritture.
Ma un Massone, un buon Massone ci hanno insegnato ha il dovere del dubbio e della ricerca della verità, ponendosi sempre dei perché a cui sforzarsi di dare delle risposte con l’aiuto della ragione.
Ed allora la ricerca per scoprire il discepolo più amato da Gesù parte dall’ultimo, da Giuda.
Giuda il traditore, il fellone, l’abietto!
Per soli trenta denari dimostrando così una assoluta assenza di morale, ha venduto un Uomo, ha venduto il Cristo, ha venduto il suo Maestro.
E cosa c’è di peggio che uccidere o far uccidere il proprio Maestro?
Uccidere colui che ci ha insegnato il passato che rappresenta la nostra storia, conoscenza necessaria per meglio vivere il presente, uccidere colui che ci ha dato buoni ammaestramenti, quale nefandezza!
Qui non si parla più di tradimento, ma parliamo di crudeltà.
Si parla di aver rigettato ciò che siamo, il nostro passato, ma senza passato noi non abbiamo presente, non abbiamo futuro.
Chi uccide il proprio Maestro non ha giustificazione alcuna.
Qualcuno, con malcelata malizia potrà però dire che dal Male può nascere un Bene, magari un Bene più grande, ma ricordiamoci che il Male rimane sempre Male.
Certo, nella vita tutti possiamo commettere degli errori, ma Giuda ha commesso qualcosa di ancora più grave, fuggire!
Fuggire dopo il tradimento, fuggire dalle proprie responsabilità ed infine uccidersi impiccandosi ad un albero senza neppure avere il coraggio di pentirsi. Questa è nefandezza massima.
Anche Simon Pietro si è macchiato di tradimento quando alla serva che lo additava ed alle guardie che accorrevano dopo aver preso Gesù disse: “Non conosco quell’uomo”, ma Pietro a differenza di Giuda, subito dopo il canto del gallo, ricordandosi di quello che Gesù gli aveva profetizzato, aprì il suo cuore ed i suoi occhi all’empietà di quanto commesso e pentendosi “pianse amaramente”.
Ma la Verità, ogni Verità, quasi fosse un Giano Bifronte, nasconde sempre un’altra Verità.
La scrittura ebraica, a tal proposito, era fatta di lettere prive di vocali poste l’una accanto all’altra senza punteggiatura. Ancora oggi quando si legge la Torah di ogni rigo vengono date due letture contrapposte.
I Rabbini ogni volta ribadiscono infatti “dice Sciammai, dice Hillel”, chi dice questo, chi dice quello.
Occorre quindi rivedere continuamente tutto ciò che ha l’apparenza di una certezza.
Sotto questo profilo Giuda è per definizione un presunto colpevole non è mai un presunto innocente, parte già condannato.
Dire a qualcuno: sei un Giuda è come dire sei un traditore, così come dire sei un Ponzio Pilato è sinonimo di indifferenza, Don Giovanni: tombeur de femmes, Re Mida: fiuto per gli affari, Otello: geloso, Pinocchio: bugiardo, Peter Pan: eterno bambino, Paperon de Paperoni: ricco ed avaro.
Il dare poi a taluno del Caino o dell’Erode è anch’esso sinonimo di crudeltà, ma nel dare del Giuda è crudeltà unita al tradimento.
L’equazione Giuda uguale Traditore è però una tesi che trova il suo fondamento in una lettura separata dei Vangeli.
Se si leggono infatti in modo distinto ognuno dei Vangeli indiscutibilmente si avvalora questo assioma, ma se si dà una lettura comparata dei Vangeli, quasi come tessere di un unico mosaico, questo tipo di presunzione (Giuda uguale Traditore) presenta delle crepe, delle discordanze.
Avviamoci quindi a vedere il mosaico nella sua completezza.

Matteo 27, 3: “Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d'argento ai sommi sacerdoti e agli anziani”.
In questo brano si avvalora la tesi del tradimento per denaro, per trenta
monete d’argento.
Giovanni 6, 70-71: “Rispose Gesù: «Non ho forse scelto io voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!». Egli parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: questi infatti stava per tradirlo, uno dei Dodici”.
Qui sostanzialmente Gesù afferma che lui ha scelto ognuno dei dodici apostoli e tra loro ha scelto anche il Diavolo.
Ma perché ha scelto il Diavolo?
Luca 22, 3-6: “Satana entrò in Giuda, chiamato Iscariota, che era nel numero Giovanni 13, 27: “
dei dodici”. Ora dopo quel boccone, Satana entrò in lui. Allora Gesù gli disse: «Quel che fai, fallo presto!»”.
Una nuova verità sembrerebbe ora svelarsi, Giuda era un discepolo come gli altri, ma per volontà del Cristo diventa un traditore. Non è stato quindi lui ad agire, ma è stato un altro per lui. Dalla lettura di Marco, si comprende infine che tutto quello che è accaduto è avvenuto “per mezzo” e non “per colpa” di un tradimento.

Quello che ora appare non è quindi un Giuda traditore, ma un Giuda che deve tradire. Giuda obbedisce ad un comando. Il Cristo ordina a Giuda di “tradirlo” al fine di permettergli con la sua morte e resurrezione di salvare tutti gli altri, l’umanità intera dal peccato e quindi da sicura perdizione. Ma perché Giuda? Semplice, era, in tutti i sensi, il migliore, l’unico capace di sobbarcarsi all’inevitabile destino che ne sarebbe seguito, e che tale è rimasto fino ai giorni nostri: quello di farsi carico, in eterno, della infamante accusa di tradimento, pagandola subito dopo con un disperato suicidio d’onore e perché no, d’amore.
Ma come Giuda tradisce Gesù? Lo tradisce con un bacio. Il bacio di Giuda serviva ad identificare Cristo fra tutti, ma Gesù era ben conosciuto da ognuno di coloro che volevano la sua morte. Egli si era recato nel Tempio, predicava per ogni dove, che necessità c’era di un segno identificativo?
E poi un’altra considerazione, perché proprio il bacio? Il bacio, come segno, è l’antitesi del tradimento. Il bacio non ha mai avuto storicamente una accezione negativa. Il bacio è la prima forma di nutrimento di una madre verso il figlio, è curativo quando una madre bacia la ferita del figlio, il bacio degli amanti è erotico, nelle favole poi risveglia la bella Addormentata o trasforma in Principe il Rospo, la fortuna a volte ci bacia, è simbolo di pace, ma mai di tradimento.
Il bacio ha sempre avuto una accezione di devozione ed amore. Con quel bacio Giuda per l’ultima volta si accomiata dal suo maestro, lo stringe a sé, lo abbraccia, arrendendosi alla volontà di Gesù, ma è schiacciato perché fragile e scosso dal grande peso del gesto.
Deve consegnare alla morte colui che più al mondo ama. Così come Gesù sulla croce tra gli strazi dell’agonia rivolto al Padre dice: “non la Mia ma la Tua volontà sia fatta”, similmente Giuda si arrende alla volontà del Cristo e dopo aver svolto il proprio compito si uccide travolto dal dolore e senza aver conosciuto il mistero della resurrezione.
In qualche modo è anch’egli un agnello sacrificale. Il bacio di Giuda si svela così come segno di massimo amore ed è da annoverare tra coloro che massimamente amarono Dio e da Lui tanto amati da essere scelti per l’assolvimento del compito più arduo che si possa mai chiedere alla persona amata.
Il mio viaggio verso la conoscenza e la scoperta di chi sia stato il discepolo più amato da Gesù sembrerebbe così terminato nel suo iniziare, ma un dubbio ancora si insinua nella mia mente e nei miei pensieri, Dante Alighieri!
Il Sommo Poeta colloca Giuda nell’Inferno, nell’ultimo Cerchio dove sono puniti i traditori. Alla punta della piramide rovesciata c’è la quarta zona, la Giudecca e lo spettacolo che si manifesta è terribile. Lucifero, quale trinità contrapposta al Dio Creatore, nelle tre bocche mastica straziandoli partendo dalle gambe e sino al basso ventre i corpi di Bruto e Cassio traditori della maestà terrena, nella bocca centrale maciulla dal capo Giuda traditore della maestà divina, mentre con gli artigli gli graffia la schiena.
3
INFERNO. — CANTO XXXIV. VERSI 55 - 72
Da ogni bocca dirompea co’ denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sì che tre ne facea così dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso il graffiar, che tal volta la schiena
rimanea della pelle tutta brulla.
“Quell'anima lassù che ha maggior pena”,
disse il Maestro, “è Giuda Scariotto,
he il capo ha dentro, e fuor le gambe mena”.
“Degli altri duo c' hanno il capo di sotto,
quei che pende dal nero ceffo è Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto:
e l'altro è Cassio, che pur sì membruto”.
La certezza da me appena conseguita, vacilla dinanzi ai versi appena recitati. Quel che Dante rappresenta nel suo cantico è di un lapalissiano disarmante: Giuda è colpevole ed in quanto tale meritevole della punizione massima e questo lo afferma Dante che è uno dei miei, dei nostri Maestri.
Decido quindi di abbandonare l’impresa quando per caso, nel riporre il mio lavoro m’imbatto in un opuscolo dal titolo Navigatio Sancti Brendani.
In questo componimento anonimo in latino redatto in ambito irlandese, presumibilmente nel X secolo, si narrano in chiave fantastica le lunghe peregrinazioni marinare di San Brandano, monaco irlandese realmente vissuto nel VI secolo, missionario e fondatore di conventi in Irlanda e Inghilterra, divenuto, per i suoi numerosi viaggi, una figura leggendaria.
Il suo è un viaggio simbolico attraverso il mare, alla scoperta di un’isola felice da cui si può contemplare il regno dell’aldilà ed è considerata tra le fonti di ispirazione della Divina Commedia di Dante. Orbene in una delle sue peregrinazioni San Brandano giunge con la sua imbarcazione ad uno scoglio dove si trova nientemeno che Giuda, che come ogni domenica è colà trasportato dai demoni per riposare dagli atroci supplizi infernali.
È comunque un riposare molto relativo il suo, perché il suo corpo è avvolto da un mantello infuocato ed è sferzato dal vento e dalle tempeste marine. Giuda si accorge del Santo proprio mentre sta per essere nuovamente trasportato negli inferi e lo supplica di intercedere presso Dio, per prolungare di un altro giorno la sua tregua.
Il Santo impietosito prega dunque il Signore per Giuda ed ai Demoni appena giunti, ma impossibilitati ad impossessarsi di lui e che gli chiedevano di smetterla di difenderlo perché era sempre il traditore di Gesù ed andarsene, dice: “Io no llo voglio difendere contra alla volontà di Dio, quello che piace a Dio piace a me, ora e sempre sia la sua volontà”. “L’abate stette tutta quella notte in orazione e lli dimoni non ferono in tutta quella notte niuno tormento a Giuda”.

Quindi per la prima volta è affermato che la misericordia di Dio è rivolta anche a Giuda ed il mitigare sia pure saltuariamente la pena forse nasconde un’altra verità.
Una crepa viene così a minare e dalle fondamenta l’affermazione della indiscutibile colpevolezza del discepolo.
Ed allora sorge spontaneo il pensare che forse Dante abbia voluto far vedere ciò che ci si aspettava e che si ritiene naturale vedere: la condanna esemplare del traditore, celando però nelle pieghe segrete della narrazione quello che solo pochi “lettori di simboli” possono comprendere.
Ritornando nella descrizione dantesca del supplizio di Caino quello che colpisce è il diverso colore delle facce di Lucifero: Nera, come la paura, come l’ottenebrazione della coscienza quella che divora Bruto; Gialla, come l’invidia che è la radice di tutti i mali quella che tormenta Cassio ed infine Rossa, come la violenza, quella che tortura Giuda.
Ma il rosso è anche il colore della vergogna che sappiamo essere stata anch’essa causa del suicidio di Giuda, inoltre è anche rosso il colore del sangue versato dal Redentore per la salvezza dell’umanità.
Se a queste considerazioni aggiungiamo che il corpo di Giuda infilato nelle fauci di Lucifero è posto al contrario di quello degli altri due dannati e di lui non si vede il volto, mi viene spontaneo azzardare una considerazione:
Giuda non è lì!
Giuda non è tra i dannati, egli è altrove, forse accanto al suo Maestro diletto nuovamente riuniti nell’amore fraterno che indissolubilmente li ha sempre legati.
Soddisfatto sto per concludere il mio lavoro, mentre col pensiero rivedo il dipinto leonardesco dell’Ultima Cena soffermandomi nel mirare i particolari dell’apostolo che poggia il capo sul petto di Gesù ed improvvisamente un nuovo pensiero illumina la mia mente e riprende a tormentare il mio animo:
E se il discepolo più amato da Gesù fosse una donna!?
Ma questa è un’altra storia....
Chi dice Sciammai, chi dice Hillel..

giovedì 15 febbraio 2018

Libero arbitrio, Guna, Volontà, Intelletto e Libertà

di Ventamore



Se si considera l’individuo umano che in atto si situa nella «stasi umana», come dice Matgioi, specie nella modalità corporea e nelle vieppiù ristrette condizioni corrispondenti all’attualità ciclica (1), può dirsi che tale individuo, relativamente allo stato che gli corrisponde in virtù del suo grado d’«identità» (2), porta in se stesso una certa possibilità, foss’anche limitata, di operare, per mezzo della facoltà raziocinante, una «scelta» in merito a determinate «tendenze» verso cui dirigere il complesso delle sue azioni (modificazioni dell’essere); «tendenze» che non possono sfuggire all’insieme di quanto costituisce il «mondo» corrispondente al suo proprio grado di realtà.
     Tale individuale possibilità di «libera scelta» non può dunque superare il ristretto dominio che costituisce l’ambito dell’esaurimento «necessario» delle possibilità di sviluppo che, come e in quanto tale, l’individuo porta in se stesso.
     Ed è tale possibilità che la filosofia e la teologia definiscono come «libero arbitrio», intorno al quale si è detto indefinitamente, e che, infine, il senso proprio si risolve nel fatto che l’individuo umano ha, sul piano della propria esistenza e conformemente alla  natura che lo contraddistingue, una relativa libera facoltà di agire secondo la propria volontà, o secondo la predominante tendenza che più qualifica la volontà stessa.
     Tuttavia, assai lontana quando non totalmente avulsa dai princìpi, la filosofia (soprattutto quella moderna) e il punto di vista teologico che vi si affianca, non possono prendere in esame se non gli aspetti esteriori e meno profondi del soggetto in questione, limitandosi più alla generale considerazione degli effetti che non delle cause; peraltro, oltre al fatto di non sfuggire ai limiti del divenire, in quanto ad esso si riferiscono, tali prospettive considerano una sorta di «livellamento» delle facoltà umane, e suppongono che tutti gli esseri umani, d’ogni tempo e di ogni latitudine, siano forniti delle stesse identiche facoltà, sviluppate in egual misura.
     
1) – In generale, la natura propria di un individuo umano, sia per quanto riguarda gli aspetti qualitativi che «quantitativi», non può se non rispecchiare le condizioni della particolare fase ciclica in cui si manifesta, vale a dire in cui ha potuto trovare la possibile «porta» cosmica della sua manifestazione; «porta» qualificata da peculiari caratteristiche (corrispondenti alla natura della razza, dell’etnia, nonché dell’insieme di quanto più qualifica la famiglia e il particolare ambiente), «situata» in un tempo e in un luogo, e che si è aperta in virtù dell’attuale e causale «identità» dell’essere individuale, il quale è soggetto, pertanto, all’esaurimento o all’«attualizzazione» di determinate possibilità suscettibili di manifestarsi in determinate modalità, quali quelle del nostro mondo. 
     È perciò evidente che, per esempio, le attuali condizioni cicliche non sono affatto né quelle dell’inizio dello stesso kali-yuga, né tantomeno quelle delle età o yuga precedenti, per non parlare del krita-yuga, il primo del presente Manvantara, dove lo sviluppo spirituale si realizzava armonicamente e unitamente a quello sottile e corporeo, e, va da sé,  non era affatto necessario alcun ricollegamento iniziatico.    
2) – Metafisicamente, un essere non può essere altro che sé stesso, cioè identico alla sua stessa propria effettiva identità con lo stato, la modalità e le condizioni che costituiscono la sua possibile realtà nell’insieme della Possibilità universale.      

     Insomma, la speculazione «filosofica» riguardante ciò che si è convenuto definire come «libero arbitrio» non si rivolge che ad un particolare ambito delle possibilità umane, ovvero di quanto, promanato dal mentale, più o meno superficialmente si manifesta all’«esterno» come essere la risultante di un reale esame elaborato dalla facoltà di discriminazione.
     Cosicché, da tale prospettiva, l’individuo umano, considerato come essere «separato» dal suo principio trascendente (il suo proprio «Sé»), ovvero dall’intuizione intellettuale o spirituale (principio in cui risiede tutta l’effettiva realtà dell’essere), viene per così dire impropriamente «investito» di una «responsabilità totale»; responsabilità legata al suo «libero arbitrio» e, pertanto, alla sua limitata volitiva libertà.
     Per dirlo in modo diverso, l’individuo in quanto tale, sarebbe o dovrebbe esser capace, tramite e in forza della sua stessa relativa volontà, di «trasmutare»  in qualche modo se stesso, ovvero di operare quel «raddrizzamento» del proprio essere al fine di «acquisire» un più ampio orizzonte intellettuale, tale da aprirlo e condurlo a superiori domìni spirituali; ciò significherebbe ritenere che una cosa  «prima» non è, e «dopo» invece è; un presupposto, tutto razionale quanto assai lontano dai princìpi, il quale induce a ritenere che un essere «è» ciò che non «era», e «sarà» ciò che non è mai stato.
     Tale punto di vista non si risolve, in definitiva, che in un «determinismo» fuori luogo riguardo alla realtà metafisica; mentre da una parte si considera l’individuo come esser privo della sua ragion sufficiente, dall’altra si pretende che lo stesso abbia la facoltà di mutare se stesso.  
     Non è forse su tale singolare prospettiva che poggia il postulato «evoluzionistico», nonché quello del «progresso»?
     Ma, grazie all’incontrovertibile Realtà dell’Ordine supremo che governa e vivifica l’Universo, le cose stanno ben diversamente: una cosa che non è, non è mai stata né mai sarà; una cosa che è, è sempre stata e sempre sarà, nell’eterno presente della Suprema Verità.
     Gli Occidentali non si son dati pace nell’ossessionare i poveri cervelli, «pestando l’acqua nel mortaio», con interminabili «argomentazioni» sulla «realtà» del «pelo nell’uovo»; e si sono prodotti in più che penose «ricerche», inconcludenti quanto fini a se stesse. Ma c’è di peggio. Ed è che tali «grandissimi pensatori», maestri (pure sospetti) della dialettica si sono perfino reso lecito voler «insegnare» (ed imporre) a tutti le loro fantastiche congetture su una mal definita e incerta «divinità», ritenuta tanto lontana quanto inaccostabile e perfino nemica degli esseri (che solo da Essa promanano e ad Essa ritornano). Basterà al riguardo citare che il pur notevole Leibnitz venne colto dall’«umile» pensiero... di dover nientemeno «spiegare» l’I King ai saggi Vegliardi del Celeste Impero!
     Non a caso manifestati nelle latitudini del «sole calante», gli Occidentali (e non soltanto) non riescono, se non in rarissime eccezioni, a liberarsi dall’azione; azione posta in essere col pensiero (pur se qui si tratta più propriamente di una attività, compresa l’individuale volontà) nel dominio psichico e con l’agire nel dominio corporeo.

     È appena l’occasione notare quanto sia indicativo il fatto che generalmente nessuno chiede a cosa si deve adempiere; tutti chiedono, piuttosto, cosa si deve fare...
     Ma l’azione in quanto tale non può liberare dall’azione stessa. E ciò ci conduce a considerazioni di un altro ordine.
     La parola a René Guénon: «Essendo l’azione null’altro che una modificazione transitoria e momentanea dell’essere, essa non può trovare in se stessa il suo principio e la sua ragion d’essere; se essa non si ricollega ad un principio posto al di là del suo ambito contingente, non è che una pura illusione; e questo principio dal quale trae tutta la realtà di cui è suscettibile, nonché la sua esistenza e la sua stessa possibilità, non può trovarsi che nella contemplazione o, se si preferisce, nella conoscenza». (3)
     Per esprimere, se possibile, più esaurientemente intorno alla natura individuale degli esseri manifestati, ricorreremo ancora a quanto esposto da R. Guénon riguardo alla teoria indù dei tre guna.
     Traiamo quindi interamente dalla sua opera quanto appresso, sintetizzando i princìpi e i relativi domìni dai quali procedono le tre tendenze cui inevitabilmente sono soggette le nature proprie degli esseri nella manifestazione universale.
     Dall’Essere (Îshwara  –  Al-Lâhût, la «Natura divina creatrice»), procede Âtmâ (Intelletto primo, Ar-Rûh al-Qudus), da cui procede Agni e quindi Buddhi o Mahat, (il «Mondo dell’Onnipotenza» – Âlam Al-Jabbarût), concepito come tre «divinità» (attributi e funzioni), identificate dai nomi divini Brahmâ (da non confondere con Brahma, il Principio Supremo), Shiva e Vishnu, che costituiscono la Trimûrti.
     Tutti gli esseri che sottostanno al dominio della Trimûrti sono soggetti all’influenza dei tre guna, i quali non sono che le condizioni dell’esistenza universale.
     «I guna  – dice Guénon – non sono perciò degli stati, ma condizioni dell’esistenza universale alle quali sono soggetti tutti gli esseri manifestati, e che bisogna aver cura di distinguere dalle condizioni speciali che determinano questo o quello stato, o modo, della manifestazione, quali lo spazio e il tempo, che condizionano lo stato corporeo ad esclusione di tutti gli altri.
     I tre guna sono: Sattwa, la conformità all’essenza pura dell’Essere o Sat, che viene fatta identica alla luce intelligibile o alla conoscenza e rappresentata quale una tendenza ascendente; Rajas, l’impulso espansivo, secondo il quale l’essere si sviluppa in un certo stato e, per così dire, a un determinato livello d’esistenza; infine, Tamas, l’oscurità, fatta identica all’ignoranza e rappresentata quale una tendenza discendente». (4)

3)  –  Studi sull’induismo, Cap. II.
4)  –  Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Parte III, Cap. 11.

     Tali tendenze, Sattwa verso l’alto, Rajas quale espansione orizzontale e Tamas verso il basso, qualificano propriamente la natura degli esseri, a seconda della predominanza di una delle tendenze rispetto alle altre due; ciò in quanto una tendenza non si esprime nella sua interezza, ma in misura della proporzione che più predomina nelle indefinite possibilità di «colorazione». Si potrà dire dunque che un essere sia più o meno satwico, rajasico o tamasico. (5)  
     «In un testo del Vêda, i tre guna sono presentati come si trasformassero l’uno nell’altro, secondo un ordine ascendente: “Tutto era tamas (all’origine della manifestazione, emergente dall’indifferenziazione primordiale di Prakriti): Egli (cioè il supremo Brahma) ordinò un mutamento [identico al Fiat Lux], e tamas prese il colore (cioè la natura) [corrispondente a varna] di rajas (intermedio tra l’oscurità e la luminosità); e rajas, ricevuto un nuovo ordine, rivestì la natura di sattwa”.
     Se esaminiamo la croce a tre dimensioni avente come origine il centro di una sfera, la conversione di tamas può essere rappresentata dalla descrizione della metà inferiore di questa sfera, da un polo all’equatore, e quella di rajas in sattwa dalla descrizione della stessa sfera, dall’equatore all’altro polo. Il piano dell’equatore, supposto orizzontale, raffigura quindi, come abbiamo detto, il campo di espansione di rajas, mentre tamas e sattwa tendono rispettivamente verso i due poli. Infine, il punto da cui viene ordinata la trasmutazione di tamas in rajas, e poi quella di rajas in sattwa, è il centro stesso della sfera. [...] I tre guna sono rappresentati  con dei colori simbolici: tamas dal nero; rajas dal rosso e sattwa dal bianco». (6) Da tanto, si potrebbe dunque concludere: se un essere umano, incline (e identico) alla tendenza della sua propria intima natura, permane nel limitato dominio individuale e si lega passivamente alla «necessità» (o al Destino), dove sarebbe il suo «libero arbitrio»?
     Se, per inverso, conformemente e in virtù della sua innata, profonda,           natura «celeste» (e quale realmente «chiamato»), un essere umano si sottomette coscientemente e completamente alla Provvidenza o alla «Volontà del Cielo», in quale «campo» esplicherebbe, pertanto, il suo individuale «libero arbitrio».

5) – Riferendosi all’esatta corrispondenza di tali tendenze con quelle che rilevano dalla dottrina islamica, Guénon diceva: «Secondo queste tre categorie [corrispondenti a coloro su cui è la grazia, coloro su cui è la collera e coloro che sono nell’errore], gli esseri potrebbero venir definiti rispettivamente come gli «eletti», i «reietti» e gli «sviati»; si che esse corrispondono esattamente ai tre guna: la prima a sattwa, la seconda a tamas e la terza a rajas». Il simbolismo della croce, Cap. XXV.  
6)  –  R.Guénon, Il simbolismo della croce, Cap. V.

     Al lumeggiamento di tali domande non si può fare a meno di veder quantomeno vacillare l’imponente impalcatura di un «pensiero» (7) che, lontano dalla metafisica, rimane impotente ad assurgere ai princìpi ed apportare una vera chiarificazione intellettuale.
     Lo sappia o meno, lo «voglia» o meno, l’uomo, così come tutti gli «altri» esseri dell’Universo, non è che un servo del suo Signore: «Non si muove foglia che Iddio non voglia».
     «Quando Iddio vuole una cosa, il Suo ordine consiste nel dire “Sii!” [Kun!] ed essa è». (8)
     «Non potete servire a Dio e a Mammona», dice il Cristo. (9)  
         In fondo, nel suo seguire il Piano (già perfettamente tracciato dal Volere supremo), l’uomo non può dirsi «libero», nell’accezione comune del termine e in quanto egli, nell’oblio di se stesso, crede d’esser «diviso» dal suo principio.
     Tuttavia è libero, in quanto tale pur relativa libertà corrisponde esattamente alla possibilità di libertà intimamente connessa al grado in cui realmente si «situa», per la sua stessa «identità», nella «marcia d’avvicinamento» verso il centro della propria coscienza (simboleggiato dal cuore, «sede» dell’intelletto e della vera intuizione), identico al Centro del suo mondo, il quale non può essere che identico all’Essere e, infine, al Principio supremo.
     Da tale punto di vista, quella «responsabilità totale», immaginata dagli amanti del Rigore (a cui inevitabilmente soggiacciono e da cui non sfuggono), si risolve in una impossibilità. D’altra parte, sarebbe del tutto inesatto negare una certa      quanto relativa responsabilità dell’individuo; essa trova attuazione all’interno dell’ampiezza del dominio corrispondente al grado effettivo dell’essere e, pertanto, non può estendersi oltre il piano in cui si trova in atto.
     In tutti i suoi stati molteplici, la libertà (e la conseguente volontà, così come la predisposizione) di un essere, quale che sia la sua «ampiezza», non discende che dalla suprema Libertà della Possibilità universale. Se è permesso un tal modo d’esprimerci, il Principio Supremo la «elargisce» con la Sua trascendente Misericordia, e la espande con la Sua Compassione nella Sua immanenza.

7) – Intendiamo un «pensiero speculativo» o «teorico», incapace di spiegare le ragioni profonde delle differentissime qualificazioni degli esseri in generale e umani in particolare. Di fatto, l’Occidente è rimasto lontano dalle dottrine tradizionali complete che si ricollegano più direttamente alla Tradizione primordiale, quale quella indù, la quale fornisce tutti i possibili «mezzi» per una reale e niente affatto farraginosa discriminazione intorno alle possibilità che un essere porta in se stesso e di cui inevitabilmente manifesta i segni della propria natura; basterà al riguardo ricordare la teoria dei tre guna, di cui abbiamo accennato. Aggiungeremo qui la semplice notazione che in tutta la sua esposizione dottrinale, René Guénon non soltanto non ha ritenuto dare alcun credito alla questione del «libero arbitrio», ma non ne ha nemmeno fatto alcun cenno.    
8)  –  Corano, XXXVI, 82. 
9)  –  Matteo, VI, 24. 

     La «verticalità» della trascendente Misericordia e l’«orizzontalità» dell’immanente Compassione ci conducono alla considerazione della teoria dei tre guna, cui abbiamo accennato sopra, custodita dalla Tradizione indù.
     Ma prima vogliamo esprimere ancora qualcosa in merito alla volontà e quindi all’intenzione proprie dell’individuo in quanto tale. Conveniamo sulla loro relativa necessità e sul loro «valore» riguardo alle possibilità di avanzamento sulla via iniziatica; tali slanci (unitamente agli sforzi), tanto più se sinceri, sono propedeudici al fine del superamento di determinate limitazioni; ma, ci si può pur chiedere: sono, in quanto individuali, realmente sufficienti al fine della realizzazione iniziatica?
     Per trarre un esempio dalle qualità innate, un individuo «stonato» e «deritmato» potrà assiduamente frequentare le più qualificate scuole di canto e i più prestigiosi istituti musicali, ma tale rimarrà nonostante tutti i possibili sforzi profusi al fine di eseguire la corretta sequenza armonica di poche note.
     Altra domanda: le cose stanno incontrovertibilmente così?
     Niente affatto. Il monumentale episodio accaduto a San Paolo (ex uccisore di credenti), è più che illuminante al riguardo; per non dire di fatti analoghi occorsi ad altri giganti della Fede, quali, per citarne alcuni, Francesco d’Assisi, il Beato Scammacca e lo stesso Milarepa.
     Il potentissimo Ricordo di chi in realtà è l’uomo, può invincibilmente irrompere nell’istante unico della simultaneità; «Il morso del Drago non perdona!». La soverchiante nostalgia del «Giorno di Alastu» (10) sbaraglia in un sol colpo (come Alessandro recise il «nodo gordiano») tutte le oscure brume della notte! Allora l’uomo si risveglia «prima di morire», così come riporta uno hadîth del «Sigillo della Profezia».
     «Chi può dunque appendere il sonaglio al collo del gatto?», disse il saggio topo.  
     Riguardo all’uomo, Iddio Altissimo dice: «Noi siamo a lui più vicini della sua stessa vena giugulare». (11)
     Il Cristo dice: «Il Regno di Dio è dentro di voi». (12)
     Inoltre, «Se [Iddio] vi abbandona, chi vi potrà aiutare?». (13)
     «Non sanno forse [gli uomini] che Iddio concede a chi vuole e a chi vuole lesina? In ciò vi sono segni per coloro che credono». (14)
     «Per coloro che credono». Ossia per coloro i quali, per la Sua infinita misericordia, ricevono la Grazia della vera Fede nel loro Signore, cioè confidano in Lui e a Lui si affidano, «come foglie morte». Allora l’uomo, per «Grazia ricevuta», pone se stesso nelle mani della Sua Provvidenza che, pertanto, «provvede».
     L’uomo, quale «figliol prodigo», preso atto della sua impotenza e della sua povertà di fronte al Principio Supremo, sa di non poter fidare in altri che non sia il suo Signore. Allora da Lui si fa «cuocere», ed ebbro della Sua Misericordia, a Lui si rivolge, con le Sue sacre Parole: «Il mio successo è soltanto in Dio, in Lui confido e a Lui ritornerò». (15)  
     «Chi vuol essere lieto sia»! Così indicò Lorenzo il Magnifico.

10)   –   Cfr. Corano, VII, 172.
11)   –   Idem, L, 16.
12)   –   Luca, XVII, 21. 
13)   –   Corano, III, 160.
14)   –   Corano, XXXIX, 52.
15)   –   Corano, XI, 88.

    La parola a René Guénon: «La metafisica è essenzialmente la conoscenza dell’universale, o, se si vuole, dei princìpi d’ordine universale, ai quali soli conviene del resto propriamente il nome di princìpi; non vogliamo però dare con ciò una vera e propria definizione della metafisica, cosa che sarebbe rigorosamente impossibile proprio a causa di quell’universalità che noi consideriamo il primo dei suoi caratteri, dal quale tutti gli altri discendono.
     In realtà non è definibile se non ciò che è limitato, e la metafisica è al contrario, nella sua essenza stessa, assolutamente illimitata, ciò che non permette evidentemente di racchiuderne la nozione in una formula più o meno restrittiva; in questo caso una definizione sarebbe tanto più inesatta quanto più ci si sforzasse di renderla precisa.
     Il dominio proprio di ogni scienza è sempre circoscritto dall’esperienza, nell’una o nell’altra delle sue diverse modalità, mentre quello della metafisica è costituito essenzialmente da ciò di cui non si può avere esperienza: essendo «al di là della fisica», si è anche, proprio per questa ragione, di là dell’esperienza». (16)
     Come ci è occorso esprimere in altre occasioni, la pupilla dell’occhio vede tutto, ma l’occhio non vede la sua propria pupilla.
     «Per provare metafisicamente la libertà non è affatto necessario preoccuparsi dei vari argomenti filosofici, ed è invece sufficiente stabilire che essa è una possibilità, dal momento che il possibile ed il reale sono metafisicamente identici.
     [...] La libertà assoluta non può realizzarsi che attraverso la completa universalizzazione: essa sarà «auto-determinazione» in quanto coestensiva all’Essere, e «indeterminazione» al di là dell’Essere. Mentre ad ogni essere è propria una certa libertà relativa in qualunque condizione si trovi, la libertà assoluta non può appartenere che all’essere liberato dalle condizioni di esistenza manifestata, individuale o anche sopra-individuale, e divenuto assolutamente «uno», al grado dell’Essere puro, o «sena dualità» se la sua realizzazione va ancora oltre l’Essere.
     In questo caso, e solo in questo caso, si può parlare dell’essere «che è legge a se stesso», poiché quest’essere è perfettamente identico alla sua ragion sufficiente, che è la sua origine principiale ed anche il suo destino finale».
     Forse che il cuore dell’uomo si dà al «libero arbitrio»?
     Quanto all’individuo in quanto tale, egli non è affatto «libero» di «arbitrare» su nessun attimo della propria esistenza e, ci sia consentita l’espressione, soprattutto allorquando deve correre onde attendere a certe irrinunciabili necessità!  
     Vincit Omnia Veritas.    
     
16)   –   Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Parte II, Cap. V.  
17)   –   Gli stati molteplici dell’essere, Cap. 18.        

Il Cantico dei Cantici. Un seminario di Nadav Crivelli



Il Cantico non è solo una poesia d'amore, ma un manuale di benessere, con delle istruzioni oltremodo pratiche, attuali, adatte a tutti: single, separati, sposati, giovani ed anziani.
In particolare, al secondo capitolo troviamo questo verso:

«Sostenetemi con focacce di uva passa, rinfrancatemi con mele cotte, poiché sono malata d'amore»

Essere "malati d'amore" ha un senso molto ampio, e non intende solo i malesseri romantici da giovani. Comprende ogni altro problema: l'abitudine e l'indifferenza tra marito e moglie dopo anni di matrimonio, le infedeltà, le difficoltà con l'aspetto sessuale, infine anche periodi di solitudine non gradevole. Nadav Crivelli, tra i più noti cabalisti europei, spiegherà in un seminario di 6 ore il pomeriggio del 24 marzo a Roma, cosa siano in realtà "le focacce di uva passa e le mele cotte", come e dove trovarle nella vita, come usarle, per trasformare situazioni difficili in preziose occasioni di crescita.

Più di un libro, gli otto capitoli del Cantico riassumono e concentrano l'intera sacra Scrittura. Il Cantico abbonda di insegnamenti di natura terapeutica. Daremo uno sguardo al segreto dei Sette Fluidi, essenziale per armonizzare il maschile e il femminile, sia all'interno che all'esterno di ciascuno di noi. La poesia squisita e sublime di questo libro, anche nelle sue traduzioni, è guida e veicolo di un indimenticabile viaggio dell'Anima verso le delizie del mondo rettificato.

Si suggeriranno un paio di esercizi pratici, di canto e visualizzazione, per imprimere meglio in noi questo messaggio straordinario, e per poterlo utilizzare anche in seguito.

Informazioni:
366 4053127 oppure 3428039743.

mercoledì 14 febbraio 2018

Matteo Renzi chiede scusa alla Massoneria per la frase infelice su La7

Matteo Renzi

«Per anni Renzi è stato tirato in ballo e accusato dell’appartenenza a ogni loggia massonica. Fatto notoriamente falso. Ieri ha solo fatto notare che i Cinque Stelle dopo aver a lungo evocato complotti e nostre appartenenze massoniche hanno finito col candidare un massone». Così Marco Agnoletti, portavoce del segretario del Pd,  scusandosi con “chi si è sentito offeso”, precisa, in una nota  il senso di alcune affermazioni, una delle quali appunto concernente la Massoneria, fatte ieri in tv da Matteo Renzi, durante la trasmissione Otto e mezzo su La 7 e l’interpretazione che ne hanno data alcuni organi di informazione..

martedì 13 febbraio 2018

Tutto ha un tempo sotto il cielo. Il 4 e 5 maggio la Grande Assemblea del Rito di York

Destino e libero arbitrio

di Nuccio Puglisi


Le tre Parche filano le trame del destino degli uomini

Quando gli impegni profani lo permettono, la sera, volentieri, amo guardare il mare dal balcone della mia casa.
La tranquillità che regna sovrana, le navi che solcano l’acqua e le luci che fanno da cornice a questo spettacolo, mi inducono a riflettere sul senso della vita e mi pongo tante domande.
Siamo guidati da un destino o siamo autonomi rispetto al Tutto? Siamo liberi? Possiamo indirizzare la nostra vita in una direzione piuttosto di un’altra senza che ciò sia stato determinato?
L’esistenza di ciascuno di noi è un mistero fitto ed impenetrabile che ci accompagna fin dalla nascita.
Come mi sento piccolo quando osservo la maestosità delle montagne e l’immensità del mare.
La grandezza che mi sovrasta e la forza che vi si nasconde mi porta a pensare che tutto il Creato viva separato da me stesso e che io non possa gestire un aspetto, anche minimo, di questa straordinaria e sorprendente struttura che è la vita.
Tutto è predeterminato allora? Possibile che non esista la possibilità di fuggire da tutto questo travalicando i sistemi universali della vita stessa?
Della mia educazione cattolica ricordo che veniva detto che Dio, nel suo straordinario e divino Essere, conosce ciò che è stato e ciò che sarà, perché ciò che è stato e ciò che sarà “è” già in Dio.
Passato, presente e futuro immutabili in Dio, ma in continua evoluzione nella sua creazione perché alle sue creature ha fatto il dono della libertà.
Ognuno è libero di agire come vuole, ma Dio sa quello che fa e che farà in quanto lo ha già presente nella sua infinita conoscenza di ogni cosa.
Dio, quindi, ci ha concesso quello che, normalmente, viene definito “libero arbitrio”.
Sin dalla notte dei tempi, gli uomini hanno considerato il libero arbitrio come la condizione in cui potessero svolgere il loro operato senza alcun controllo superiore.
In relazione a ciò, Pico della Mirandola in “Oratio de hominis dignitate” scriveva:

«Tu senz’essere costretto da nessuna limitazione, potrai determinarla da te 
medesimo, secondo quell’arbitrio che ho posto nelle tue mani.
Ti ho collocato al centro del mondo perché potessi così contemplare più 
comodamente tutto quanto è nel mondo.
Non ti ho fatto del tutto né celeste né terreno, né mortale né immortale perché tu 
possa plasmarti, libero artefice di te stesso, conforme a quel modello che ti sembrerà migliore.
Potrai degenerare sino alle cose inferiori e potrai rigenerarti, se vuoi, 
sino alle creature superne, alle divine»

Ma… cosa è veramente il libero arbitrio?
Per alcuni filosofi “libero arbitrio” significa sostanzialmente assenza di costrizioni. In poche parole un soggetto è libero quando non è indotto ad una scelta in contrasto con quelle che sarebbero le sue preferenze.
Questa definizione, sinceramente, non mi soddisfa in quanto la ritengo ovvia e semplicistica.
Serve qualcosa di più.
Un aiuto sostanziale per meglio capire cosa è il libero arbitrio, potrebbe darcelo la decima “Lama” dei Tarocchi: La Ruota della fortuna.


La ruota della fortuna


Su di essa sono raffigurati tre personaggi: due che ruotano insieme alla ruota, in ascesa e discesa, con sembianze animali, ed una, stabile, con l’aspetto di sfinge, che domina su di essa, impugnando una spada.
La carta ci insegna che finché l’uomo sarà soggetto alle forze animali, alle passioni e alla emozioni, sarà ugualmente passivo del movimento della ruota, passando da momenti di ascesa a momenti di discesa senza essere in grado di gestire il movimento stesso .
Al contrario, l’essere sulla sommità della ruota, la sfinge, simbolo di iniziazione, conoscenza e saggezza, sfugge il moto perverso, dominandolo con la spada, simbolo che rimanda, inevitabilmente, al potere del Verbo, la stessa spada che esce dalla bocca del Cristo apocalittico.
Quindi, finché l’uomo non risale dagli effetti alle cause di tutto ciò che esiste, sarà sempre preda del destino e su di esso non avrà alcun potere; sarà per sempre soggetto al movimento del karma e al ciclo delle reincarnazioni.
Per poterci affrancare da questo interminabile ciclo, è necessario intraprendere una via spirituale seria.
Si dovrà agire, particolarmente, sul piano animico-emozionale.
È questa un’opera ardua da compiere, perché si tratta di lavorare sui sentimenti, sulle emozioni , sulle paure e sugli attaccamenti.

Michele domina il demone dell'Ego

Alcune di queste espressioni sono piacevoli e coinvolgenti e sono pochi coloro che sono disposti a distaccarsi o, semplicemente, cambiare il proprio punto di vista.
Per questo motivo si dice che i chiamati sono tanti ma gli eletti sono pochissimi.
La lotta più accanita la si dovrà combattere contro il proprio “Ego”, che è il nemico più forte da sottomettere e dominare e fargli sentire che non è lui a governare e che si dovrebbe sottomettere alla volontà di colui che è realmente l’Essere.
Quante volte una parte di noi vuole una cosa e l’altra invece, si oppone. In certi momenti amiamo, in altri succede tutto il contrario, allora inizia una lotta interiore tra questa dualità che non produce, nella maggior parte dei casi, una vittoria al cento per cento.
Questo stato caotico si deve alla mancanza di conoscenza, perché sapere è come erigersi a giudice ed osservare le parti che litigano e infine, essendo distaccato, prendere la giusta decisione.
Allora, potremo definire il libero arbitrio come la capacità di scegliere in contrasto con le proprie preferenze senza essere vincolati dal proprio carattere, dalle proprie aspirazioni e dalle circostanze in cui avviene la scelta.
L’Essere che è in ciascuno di noi entra nel corpo che si forma nel ventre materno utilizzandolo come un laboratorio che gli permetterà di trasformarsi, ma finché non prenderà coscienza e consapevolezza di questo, rimarrà preda del destino di quel corpo che, a sua volta, è parte di un destino e di un karma più grande, quello di una intera generazione, di una popolazione fino ad arrivare a quello dell’intera umanità.
Per questo è vero che esiste un Destino, ma è anche vero che esiste un Libero Arbitrio, una autodeterminazione del Sé Superiore che agisce nel momento in cui la Luce Divina rischiara le buie prigioni dell’alienazione e risveglia l’Essere che dorme nell’oblio , che altro non chiede che trasformarsi ed esprimersi, realizzando quello per cui è giunto su questa terra: il regno di Dio in ogni Uomo Nuovo.