giovedì 8 gennaio 2009

IL SANTO GRAAL: C'E' DAVVERO MISTERO? (Parte terza e ultima)


Il Santo Graal: c'è davvero un mistero?

di Fabio Calabrese

La Prima parte e la seconda di questo lungo articolo sono stati Postati il 3 gennaio (Clikka quì per richiamarlo, se non lo hai letto) e il 5 gennaio (Clikka quì per richiamarlo, se non lo hai letto) .

 

Parte Terza.

Appunto in ragione delle scomuniche inflitte all’imperatore Federico II ed a suo figlio Manfredi, la Chiesa si ritenne in diritto di trasferire nel 1266 il regno di Sicilia dalla casa di Svevia a quella d’Angiò, ed è da notare il particolare che merita di essere ricordato ad imperitura vergogna di questi sedicenti rappresentanti terreni della divinità, che il corpo di Manfredi, caduto alla testa dei suoi uomini nella battaglia di Benevento, e sepolto dai suoi soldati, fu fatto disseppellire e buttare fra i rifiuti dalle autorità ecclesiastiche: “una bestia” non aveva il diritto alla sepoltura.

Torniamo ai nostri Merovingi: nel 679, il re Dagoberto II fu fatto uccidere a tradimento, e la sua famiglia fu fatta massacrare dal maestro di palazzo Pipino di Heristal, padre di Carlo Martello e bisnonno di Carlo Magno. Questa strage fu avallata, od almeno non fu troppo biasimata dalle autorità ecclesiastiche, poiché Dagoberto aveva mostrato un’eccessiva autonomia e non troppo rispetto per le prerogative della Chiesa. 

Non fu l’estinzione immediata della stirpe merovingia che continuò attraverso rami cadetti per altri tre quarti di secolo, fino a Childerico III, ma il declino era ormai totale: è il periodo di quelli che sono stati calunniati come “re fannulloni”, in realtà re impossibilitati ad agire, spesso troppo giovani per regnare realmente, fatti e disfatti a loro talento dai maestri di palazzo carolingi, che infine li soppiantarono anche di diritto.

Secondo i “documenti del Priorato”, ma solo secondo essi, senza nessun altro appiglio storico, uno dei figli di Dagoberto, Sigisberto, sarebbe sopravvissuto alla strage, ed attraverso lui la stirpe merovingia si sarebbe perpetuata fino ai nostri giorni; una storia che ricorda molto quella della sedicente Anastasia, presunta figlia dello zar Nicola II che sarebbe sopravvissuta al massacro di Ipatiev, e che oggi sappiamo per certo essere stata un’imbrogliona che in realtà nulla aveva a che spartire con la casa imperiale russa. 

E’ noto che la fondazione del Sacro Romano Impero avvenne in maniera alquanto bizzarra: Carlo Magno, che fino a quel momento era semplicemente re dei Franchi, invitato a Roma per una messa solenne la notte di natale dell’anno 800, fu incoronato a sorpresa dal papa “imperatore romano”, ed è anche noto che questo insolito regalo di natale non fu per nulla gradito dal sovrano franco, che manifestò un vivo disappunto.

“Sembra che Carlomagno [gli autori usano questa grafia, dal francese Charlemagne, personalmente ritengo che “Carlo Magno” sia più corretto e preferibile] fosse dolorosamente consapevole del tradimento implicito nella sua incoronazione. Secondo le cronache contemporanee, l’incoronazione fu un’accurata messa in scena, predisposta dal papa all’insaputa del monarca franco; e sembra che Carlomagno fosse sorpreso e profondamente imbarazzato. Era già stata preparata di nascosto una corona. 

Carlomagno era stato attirato a Roma e indotto ad assistere a una messa solenne. Quando prese posto in chiesa, il papa senza preavviso, gli posò sulla testa il diadema, mentre il popolo lo acclamava “Carlo, Augusto, incoronato da Dio, grande e pacifico imperatore dei Romani”. Per ripetere le parole di un cronista del tempo, Carlomagno disse chiaramente che non sarebbe entrato nella cattedrale quel giorno, sebbene fosse la più grande di tutte le festività della Chiesa, se avesse saputo in anticipo ciò che intendeva fare il papa” (pag. 273).

Questo brano è tipico della maniera che hanno gli autori di travisare le cose a sostegno delle loro tesi; danno ad intendere che Carlo Magno fosse riluttante ad assumere quella corona che suo padre, Pipino il Breve aveva strappato ai Merovingi con un’usurpazione che sarebbe stata anche un sacrilegio, ammesso che questi ultimi fossero realmente la discendenza di Cristo, la “famiglia del Graal”. La realtà dei fatti storici è ben diversa: Carlo Magno era divenuto re dei Franchi nel 768, aveva accettato quella corona usurpata ai Merovingi da suo padre 17 anni prima senza alcuna remora, non solo, ma nel 771 vi aveva aggiunto anche la parte spettata al fratello Carlomanno, approfittando della morte di quest’ultimo e privando i suoi nipoti della loro eredità.

Il motivo per il quale l’incoronazione a “imperatore romano” provocò il suo disappunto, anche questo è noto, era completamente diverso, e non aveva nulla a che fare con i Merovingi: nel 476, dopo che Odoacre ebbe deposto Romolo Augustolo, l’ultimo, effimero imperatore romano d’occidente, egli spedì le insegne imperiali a Bisanzio. Il significato di ciò era chiaro: l’imperatore bizantino era l’unico e solo “imperatore romano”. 

Questo per Bisanzio non era un riconoscimento simbolico, l’impero bizantino aveva sempre mostrato di considerare l’insediamento dei regni barbarici nell’impero occidentale come un accidente temporaneo cui occorreva porre fine, tanto è vero che sotto Giustiniano, dal 533 al 554, Bisanzio aveva intrapreso una serie di campagne militari intese a riportare sotto il suo controllo i territori che avevano fatto parte dell’antico impero romano, strappando l’Africa del nord ai Vandali, l’Italia agli Ostrogoti, gran parte della Spagna ai Visigoti, solo il regno dei Franchi nella Gallia e parte della Spagna visigota erano rimasti fuori dalla riconquista.

Questa elevazione ad “imperatore romano” del sovrano franco non aggiungeva nulla al suo potere effettivo, e creava un incidente diplomatico con i Bizantini proprio nel momento in cui Carlo Magno cercava di arrivare ad un accordo con loro. In più, Carlo era un politico abbastanza scaltro e lungimirante da accorgersi che, arrogandosi il diritto di “fare e disfare” gli imperatori, la Chiesa metteva una pesante ipoteca sul regno dei suoi successori.

Spostiamoci in avanti di sette secoli. Tra il 1574 ed il 1589 la Francia attraversò una delle crisi più gravi della sua storia. In quel periodo sedeva sul trono francese Enrico III, ultimo della casa di Valois. Egli era succeduto al padre, Enrico II ed a due fratelli morti uno dopo l’altro in giovane età, e non c’erano altri Valois viventi; in più, si sapeva che egli, notoriamente omosessuale, non poteva avere discendenti; egli nominò erede testamentario il proprio parente più prossimo, il re di Navarra Enrico di Borbone, pure quest’ultimo appartenente ad un ramo cadetto dei Capetingi, ma c’era un grosso ma; non solo Enrico di Borbone era protestante ma addirittura il capo riconosciuto degli Ugonotti, i protestanti francesi, e ciò arrivava in un momento nel quale la lotta fra cattolici e protestanti, lotta armata estremamente sanguinosa era al culmine in Francia, era divenuta inarrestabile dal 1559, quando la morte prematura ed improvvisa di Enrico II, rimasto ucciso in un torneo, aveva lasciato la corona in una posizione di estrema debolezza. 

Gli Ugonotti, i protestanti francesi, erano una minoranza, e la grande massa del popolo francese era rimasta cattolica, ma si trattava di una minoranza che reclutava i suoi adepti fra la nobiltà e l’alta borghesia imprenditoriale, una minoranza molto ben organizzata e che deteneva molte posizioni di potere. I cattolici francesi insorsero, guidati dalla potente famiglia dei Guisa, ed il capo di questa casa – che per un bizzarro caso si chiamava anch’egli Enrico – fu considerato dai cattolici francesi l’erede legittimo al trono in ragione di un’ascendenza piuttosto vaga che i Guisa vantavano – o pretendevano di vantare – con i Carolingi.

La guerra civile che ne derivò, per questo motivo, è ricordata dagli storici come la guerra “dei tre Enrichi”.  La Spagna, la Spagna di Filippo II, che era allora lo stato più potente d’Europa, intervenne con le sue truppe a sostegno dei cattolici francesi e della casata di Guisa; all’ambizioso monarca spagnolo non dovette essere parso vero di avere l’occasione di attirare la Francia nella sua orbita. 

La situazione parve divenire ingovernabile quando, nel 1589, un fanatico cattolico uccise re Enrico III in un attentato. A questo punto, però, Enrico di Borbone fece un’abile mossa che spiazzò tutti, si convertì al cattolicesimo. Di colpo, quella che era iniziata come una guerra civile con motivazioni religiose, si trasformò in una lotta di liberazione dei Francesi contro gli invasori spagnoli, ed i Guisa si trovarono trasformati da pretendenti al trono, in una casa di traditori al servizio della Spagna, mentre Enrico di Borbone s’insediava trionfalmente sul trono francese come Enrico IV.

Occorre dire che la casa di Guisa è una di quelle che, secondo Baigent, Leigh e Lincoln, i “documenti del Priorato” (posto che simili documenti esistano davvero) indicano come di ascendenza merovingia, quindi facente parte della “famiglia del Graal”, dei discendenti di Cristo. Se questo fosse vero, quello sarebbe stato il momento per i Guisa, per la “famiglia del Graal” di rivendicare apertamente la propria eredità, e per il Priorato di Sion, ammesso che tale associazione esistesse davvero e non sia un’invenzione moderna, di uscire allo scoperto, di farsi avanti.

Se tanto avesse una sia pur minima base storica, i Guisa avrebbero avuto ancora parecchie carte da giocare: un’ascendenza merovingia sarebbe stata un titolo di rivendicazione del trono francese molto più persuasivo di quella carolingia (se prescindiamo dalla figura eccezionale di Carlo Magno, i Carolingi non fanno una gran bella figura nella storia francese: guadagnarono il trono con l’omicidio – l’assassinio di Dagoberto II – e con l’usurpazione, e lo persero per inettitudine), tanto più se, in quanto merovingio, Enrico di Guisa avesse potuto, con l’aiuto del Priorato di Sion, provare di discendere addirittura da Gesù Cristo! Che la conversione di Enrico di Borbone al cattolicesimo fosse tutta strumentale e politica, questo non sfuggiva a nessuno; l’aveva ammesso lo stesso interessato con la famosa frase: “Parigi val bene una messa”, ed erano in molti a reputarlo anche dopo di essa un pericolo per la fede cattolica, al punto che finì egli pure, come il suo predecessore, assassinato da un fanatico cattolico nel 1610 (non prima, però, di aver assicurato la continuità della dinastia nella persona di suo figlio Luigi XIII).

(I libelli sfornati all’epoca dalla pubblicistica cattolica per giustificare gli assassini di Enrico III e di Enrico IV e che arrivano a teorizzare senza tante perifrasi la liceità del regicidio, sono una lettura interessante ancora oggi, anche se si ha l’impressione di non riuscire più a distinguere la differenza fra la Chiesa cattolica e le Brigate Rosse). Se tutto ciò non è avvenuto, una sola spiegazione è possibile: La casa di Guisa non discendeva dai Merovingi che si sono con ogni verosimiglianza estinti con la morte di Childerico III nell’anno 754, e nulla prova che fossero discendenti di Gesù Cristo, e non vi sono indizi che il fondatore della religione cristiana abbia lasciato discendenti, che il Priorato di Sion, o non è mai esistito o si tratta di un’invenzione moderna, che i “documenti del Priorato”, se esistono, sono una ricostruzione fantasiosa di certi avvenimenti storici, o, per usare un termine più tecnico, una bufala.

La pista del Graal cristiano finisce nel nulla, tuttavia vi è un senso che ha questo mito così centrale nella cultura europea, che gli autori hanno evitato, si direbbe in maniera deliberata, di esplorare. Suppongo che ve ne siate già accorti anche voi: non è perlomeno strana una trattazione del Graal opera di autori inglesi nella quale si evitano di menzionare le Isole Britanniche ed il ciclo arturiano, le storie della Tavola Rotonda? In realtà la cosa non è per nulla così strana, se si vuole presentare una lettura del mito del Graal in chiave esclusivamente cristiana, poiché non è possibile collocare questo mito nel contesto del ciclo arturiano senza che ne balzino agli occhi le origini celtiche, pre – cristiane e pagane.  

Stranamente, gli autori, mentre si dimostrano fin troppo creduli, per non dire sensazionalistici circa tutti gli altri aspetti del “mistero del Graal”, avallando anche versioni contraddittorie, a cominciare dai “documenti del Priorato” che nulla prova non siano il lavoro di qualche arguto burlone, riguardo alle origini britanniche della leggenda, manifestano un sorprendente scetticismo:
“Ormai incominciavamo a chiederci se la preminenza assegnata alla Britannia dai commentatori dei romanzi del Graal non fosse frutto di un errore” (pag. 327).

Ed aggiungono in una nota a pag. 336 che ciò “Può essere un’eco del fatto che re Dagoberto trascorse la fanciullezza in Bretagna” Bretagna che, si noti, non significa la penisola bretone, bensì le Isole Britanniche, infatti, Dagoberto: “Crebbe nel monastero irlandese di Slane, non lontano da Dublino; e nella scuola annessa al chiostro ricevette un’istruzione di gran lunga superiore a quella che avrebbe potuto ricevere nella Francia di quei tempi. 

Sembra che durante questo periodo frequentasse la corte del Sommo re di Tara. Inoltre fece amicizia con tre principi di Northumbria che studiavano anch’essi a Slane. Nel 666, probabilmente quando viveva ancora in Irlanda, Dagoberto sposò Matilde, una principessa di stirpe celtica. Poco tempo dopo si trasferì dall’Irlanda in Inghilterra e si stabilì a York, nel regno di Northumbria. Qui si legò di stretta amicizia con san Wilfrid, vescovo di York, che divenne il suo mentore”(pag. 264).

Tutto ciò può essere, ma non si vede in che modo possa aver dato origine al Ciclo Bretone. Re Artù è nominato solo di sfuggita, per proporre una discutibile etimologia del suo nome, che si ricollegherebbe al greco artos, orso, messo in relazione con il fatto che l’orso era l’animale totemico sacro dei Sicambri (che strano che dei discendenti della tribù ebraica di Beniamino e poi addirittura di Gesù venerassero un animale totemico!), ma forse il massimo dell’umorismo involontario gli autori lo raggiungono quando ci spiegano che Perceval le Galois non vorrebbe dire “il gallese”, ma sarebbe una deformazione di Valois, il Vallese, e per conseguenza dovremmo forse tradurre “Perceval lo svizzero”.

C’è insomma un chiaro lavoro di coverage, di depistaggio. Il mito del Graal non può avere origini celtiche – britanniche perché non deve avere scaturigini e significati pagani. Più ci si attiene a questi singolari criteri interpretativi, più le bizzarrie aumentano; si veda a pag. 304: “Le fondamenta pagane dei romanzi del Graal sono state esplorate in modo esauriente da molti studiosi, da Sir James Frazer nel Ramo d’oro fino ai nostri giorni. 

Ma nella seconda metà del secolo XII la base originariamente pagana dei romanzi del Graal subì una trasformazione curiosa e di straordinaria importanza. In un modo oscuro che finora ha eluso le indagini dei ricercatori, il Graal fu associato esclusivamente e specificatamente al cristianesimo, anzi, a una forma di cristianesimo non molto ortodossa. Con un enigmatico processo di fusione, il Graal venne collegato inestricabilmente a Gesù. 

E sembra che non si trattasse soltanto di un facile e disinvolto innesto di tradizioni pagane e cristiane”. Bizzarro è il meno che si può dire: dunque, un mutamento nell’interpretazione letteraria di un simbolo, avrebbe avuto il potere di cambiare la storia precedente, alterando l’universo reale e creando la stirpe dei discendenti di Gesù? Strano, molto strano: se gli autori dei romanzi cavallereschi avessero avuto un tale potere…………

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Fonte: bibrax