venerdì 31 maggio 2019

Dei remi facemmo ali al folle volo. Ulisse e il viaggio nella Conoscenza in Massoneria

di Luigi Piscitelli




La Divina Commedia nasconde il completo percorso iniziatico dell’adepto avvolto nell’oscurità del suo stato d’animo, che dapprima discende agli inferi, poi inizia la sua lenta risalita attraverso la purificazione, ed infine raggiunge la Luce, quella conoscenza riservata solo a chi è riuscito a spingersi oltre; oltre il conosciuto per affrontare l’ignoto.
L’opera tutta, dunque, è un testo iniziatico, con il quale Dante Codificò le sue conoscenze.
Il poeta descrive un percorso iniziatico dove l’uomo è alla ricerca delle sue origini, è un ritorno al punto dove partono tutte le cose, descritto con un linguaggio ricco di simboli ed allegorie che velano segreti iniziatici. Dunque, non c’è bisogno delle esplicite dichiarazioni di Dante per essere certi che sotto il senso letterario della Commedia, si nasconde senza alcun dubbio una allegoria.
Il soggetto della Commedia è l’uomo, o meglio la rigenerazione dell’uomo.
Quando il poeta, nel viaggio guidato da Virgilio, il Maestro, espone i suoi dubbi, ci troviamo nel pieno di un processo di iniziazione, in cui il neofita viene accompagnato nella sua opera di ricerca attraverso la decifrazione dei simboli, nella consapevolezza che si acquisisce passo dopo passo, che le verità ascoste anche quando saranno attinte non sarà possibile comunicarle.
Il canto XXVI dell’Inferno, è ambientato nell’ottava Bolgia dell’Ottavo cerchio dell’ultraterreno mondo infernale, uno dei punti più bassi. Qui sono punite le anime dei consiglieri fraudolenti. La colpa di questi dannati è legata alla conoscenza e, soprattutto, all’uso della parola per tessere inganni. Il loro peccato è quindi di natura intellettuale.
Vero protagonista di questo canto è Ulisse, che domina completamente la scena con il racconto del suo ultimo viaggio.
All’interno del XXVI Canto, Ulisse incarna l’uomo di ogni tempo che dedica l’intera propria vita alla conoscenza. Qual è quindi la sua colpa? Certo, c’è la questione dell’inganno (ricordiamo il cavallo di Troia), ma il peccato commesso da Ulisse non si limita a questo: l’eroe Achéo trova la morte proprio nel momento in cui sta cercando di oltrepassare i limiti posti al sapere umano, raffiguranti nelle colonne d’Ercole.
Il suo desiderio di “seguir virtute e canoscenza” viene perpetuato al di fuori della Grazia divina e assume quindi i connotati di un folle volo: “de’ remi facemmo ali al folle volo”.
È Ulisse stesso a raccontare a Dante il suo ultimo viaggio.
Giunto alle colonne d’Ercole, il limite estremo delle terre conosciute, l’eroe rivolge ai compagni una  che è un capolavoro di retorica, con cui li esorta a non perdere l’occasione di
esplorare l’emisfero australe totalmente invaso dalle acque, dove non abita nessun uomo. Mosso da questa sua ricerca, da questa fame di conoscenza, chiama a questa stessa fedeltà i suoi compagni, come il Maestro venerabile chiama i suoi fratelli.

«O frati, dissi, che per cento milia perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i notri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la Vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza».

Dunque le colonne segnano un ostacolo, un limite da superare, il confine tra lo spazio del profano e quello della sacralità ma, nello stesso tempo, indicano che al di là c’è l’oceano in cui sprofondare e annegare, al di qua la sicurezza di ciò che si conosce. Chi ha deciso di entrare è certo di quello che sta abbandonando, ma non sa quello che potrà trovare. Egli si troverà di fronte a se stesso e all’infinito, sarà segnato dalla paura e dallo sgomento, ma ad ogni passo scoprirà qualcosa di quello che sta cercando.
L’iniziato non può stare al di qua ed al di là di esse, non può portare dentro quello che deve essere fuori, né deve portare fuori quello che deve restare dentro, le colonne segnano proprio questo confine e questo incontrovertibile principio iniziatico.
Cari fratelli, cosa abbiamo chiesto il giorno della nostra iniziazione?
La Luce, la conoscenza.
È dunque l’iniziazione un momento fondamentale, indelebile, della nostra vita. E’ l’inizio di una nostra nuova esistenza, è un nuovo parto, che però ha in se anche una valenza di morte. La morte dell’essere che eravamo prima. Un essere che abbiamo seppellito per sempre nella caverna del gabinetto di riflessione, dove di nostro pugno abbiamo scritto il nostro testamento.
Non si diventa massoni, non si può nemmeno desiderare di diventarlo, se non c’è la volontà di oltrepassare le proprie personali Colonne d’Ercole, ovvero di scavare profondamente nel nostro intimo e da lì risalire per superare i propri limiti esistenziali.
L’iniziazione è in pratica un viaggio di ritorno e di andata, che ci riporterà apparentemente al punto di partenza, ma profondamente trasformati.
Il viaggio che compiamo durante l’iniziazione all’interno del tempio più che una vera e propria gestazione, è una completa ri-generazione. Il nostro corpo profano deve disgregarsi fino al suo primordiale stato embrionale, nell’atanor materno (rappresentato dal fuoco), per ricomporsi quindi, attraverso una nuova genesi spirituale, nel nuovo “Essere iniziato”.
Il nostro aspetto fisico non è cambiato, ma è cambiato per sempre qualcosa dentro di noi.

Vorrei meditare con voi sulla leggenda delle conoscenze perdute. La leggenda è riportata nel Sefer Haggdà. Si racconta che la ragione per la quale l’uomo, prima di nascere, deve passare 9 mesi nel ventre della madre, e che lì l’Arcangelo Gabriele gl’insegna tutta la Torah, quella scritta e quella orale. Per 9 mesi, con una candela accesa sulla testa, l’uomo impara tutta la Legge e, solo quando é pronto, può uscire alla luce del mondo. Un istante prima della nascita l’angelo gli spegne con un soffio la fiammella e il bambino dimentica tutto. Tutta la sua vita dovrà essere dedicata allo studio della Torah, a cercare di ricordarsi quello che aveva già imparato. Gli viene spenta la fiammella che portava sulla testa nel ventre della madre e questa viene sostituita dalla luce del mondo esterno. Nei meandri oscuri del ventre materno aveva una luce interna, questa si spegne e al suo posto viene la luce del sole, che abbaglia invece di illuminare. Per questo continua la leggenda ebraica, il neonato piange al momento della nascita, poiché ha dimenticato tutto e dovrà dedicare tutta la sua vita a cercare di ricollegarsi faticosamente al sapere perduto.

Per quale scopo ci riuniamo? Cosa ci viene ripetuto? Di edificare templi alla virtù, e scavare profonde ed oscure prigioni al vizio. Cioè, l’invito a lavorare per il beneficio dell’umanità, scavando profonde prigioni all’ignoranza, che è il massimo vizio dell’uomo, antagonista alla Luce...