di Nuccio Puglisi
Il Qohelet o Ecclesiaste è un testo contenuto nella Bibbia ebraica (Tanakh).
È scritto in ebraico e la sua redazione si ritiene sia avvenuta in Giudea nel IV o III secolo a.C. ad opera di un autore ignoto che afferma di essere il Re Salomone, perché in quel periodo si era soliti attribuire opere a personaggi storici considerati sapienti.
Qhoelet è composto di 12 capitoli contenenti varie meditazioni sapienziali sulla vita, molte delle quali caratterizzate da un tenore pessimistico ("tutto è vanità", cioè "tutto è inutile, vuoto").
L'etimologia del termine ebraico Qohèlet deriva dal participio presente femminile del verbo qahal, che significa convocare, adunare, "radunare in assemblea". Letteralmente dovremmo tradurre Qohèlet, participio presente femminile, con l'animante, nel senso di colei che anima il discorso, l'animatrice.
I Greci tradussero questa parola con il termine Ekklesiastès - traduzione greca dei Settanta che ha reso l'ebraico "qahal" (assemblea) con l'equivalente greco "Ekklesia". "Ekklesiastès" significa dunque "colui che parla o che partecipa all'assemblea", senza nessun collegamento alla terminologia cristiana.
In sintesi in questo libro vengono dibattuti gli interrogativi che accompagnano l’uomo da sempre, da quando si è reso conto di avere una coscienza, di poter “dialogare” con la conoscenza del mondo, con la probabile esistenza di un Dio Creatore, un mondo comunque esterno ed eterno rispetto alla breve durata della vita di ogni individuo. Ne nascono tutti i dubbi e tutti i perché. E non sono necessariamente dubbi “religiosi” ma, a mio avviso, fondamentalmente “esistenziali”.
Nel Qohelet viene esposto, in forma dialettica, un contraddittorio tra il bene e il male. La riflessione ruota intorno a due interrogativi, ovvero a cosa serva fare il bene e a cosa serva fare il male. Se la morte è l'unica conclusione della vita, allora tutto sembra vano. Qohelet allora suggerisce: "Abbi fiducia nel Padre e segui le sue indicazioni". È qui che si legge la famosa frase Vanitas vanitatum (vanità delle vanità), significando che tutto non è altro che cosa vana, fatua.
Vanità è una parola che viene continuamente ripetuta, perché è la parola d’ordine di questo libro pur così intenso nelle descrizioni di come l’animo umano si dibatta nei dubbi sull’esistenza, sul perché esistiamo e su quale sia la vera realtà.
Nel XII capitolo viene usato un linguaggio ironico per consigliare esattamente il contrario di ciò che dice. Muovendo dalle inclinazioni naturali del giovane, gli consiglia di fare tutto ciò che lo attrae per istinto; ma lo ammonisce dicendogli che però in fondo lo aspetta un giudizio in cui sarà condannato. È importante comprendere che, per giudizio, in genere s’intende un processo, un esame per verificare l’innocenza o la colpevolezza di un indiziato. Ma qui, rispettando lo spirito di tutta la Scrittura, non intende che per qualcuno ci sia la possibilità di uscirne assolto o giustificato. No, tutti indistintamente usciranno condannati. Perciò, il suo reale consiglio è: fate esattamente il contrario di ciò che desiderate! Ecco come incita ironicamente il giovane: Rallegrati giovane durante la tua adolescenza. Gioisci e fa’ festa in cuor tuo durante la tua giovinezza. Cammina, cioè vai pure dove le tue passioni ti trascinano. Segui pure e fa ciò che desideri maggiormente. Scaccia dal tuo cuore la tristezza, liberati dai problemi. Liberati dalle cose che ti danno fastidio, che ti affliggono e ti fanno soffrire. Liberati da tutte quelle regole, quei doveri che ti limitano e non ti permettono di essere te stesso... Questi consigli che l’Ecclesiaste dà ironicamente ai giovani, sono il naturale e istintivo modo di vivere della natura umana, già fin dall’adolescenza, specie fra i 10 e i 15 anni, ma anche fino alla giovinezza più inoltrata! E che l’Ecclesiaste volesse dire esattamente il contrario, lo dimostra il fatto che poi dice: “...poiché la giovinezza e l’aurora sono vanità”. Infatti, è probabile che, nel definire la giovinezza cosa vana, voglia intendere che non ha nessuno scopo preciso e nessuna funzione utile. Quindi, tanto vale che la si goda in divertimenti. Infatti, molta gente, anche non più giovane, pensa che la vita sia solo uno strumento di piacere: un mezzo per godersela! Invece, chi ha cervello che funziona, sa bene che l’adolescenza e la giovinezza costituiscono proprio il tempo necessario e prezioso in cui la vita si forma. Altro che vanità! E questo è dimostrato in tutto il libro. Infatti, l’aurora indica l’inizio del giorno; come la giovinezza indica l’inizio della vita. Ma l’una e l’altra sono una vanità, nel senso che sono spazzate via da ciò che sta per venire. Ma soprattutto ammonisce dicendo: “...ma sappi che, per tutte queste cose, Iddio ti chiamerà in giudizio!”.
Ma una delle verità importanti da cogliere qui, è che le cause che porteranno in giudizio, non soltanto il giovane ma chiunque si comporta in quel modo, non sono i gravi peccati come il furto, l’omicidio, la lussuria; ma anche soltanto vivere la propria vita, spensieratamente e naturalmente.
L’Ecclesiaste parla qui di come sia importante il tempo di cui disponiamo e che passa in fretta; e come sia urgente ricordarsi di Dio finché c’è tempo. E, mediante delle similitudini ben comprensibili, spiega il processo della fine della condizione umana, per passare alla condizione eterna.
L’Autore dimostra che la nostra vita si divide in due tempi, che sono realmente tali anche se non si distinguono con un taglio netto; ed anche se il passaggio non è uguale per tutti.
1º I giorni della giovinezza in cui si gioisce, ci si diverte, s’inseguono sogni, si vive spensieratamente; insomma il tempo in cui si gode la vita.
2º Gli anni in cui non si ha più piacere in alcuna cosa; si perde l’interesse di tutto. In essi il piacere non è più, è svanito del tutto.
Infatti, se osserviamo bene le cose che determinano questi due stadi della vita, scopriamo la totale contrapposizione degli indirizzi, degli interessi, delle valutazioni: I giovani, vivono continuamente nel futuro, in un domani radioso, lo sognano colmo di soddisfazioni. I vecchi, invece, vivono di ricordi. Essi ormai hanno capito che, quando speravano tanto nel futuro, in realtà il momento migliore era quello che stavano vivendo. Che il futuro riserva cattive sorprese, rispetto alla vita terrena; essi hanno purtroppo sperimentato che quel domani migliore non ci sarà. Per questa ragione, qualcuno ha giustamente detto che il momento del passaggio alla vecchiaia è il tempo in cui si cessa di fare progetti e si cominciano ad inventariare i ricordi.
Quali cose accadranno dopo la giovinezza?
Ora l’autore passa ad indicare una serie di esperienze comuni a tutti. Ma prima di tutto ci ammonisce ancora una volta che è necessario conoscere il Creatore e allacciare una giusta relazione con Lui. Da una rapida lettura dei versetti, appare evidente che, attraverso una serie di specifiche immagini, il Savio parla del decadimento del corpo umano:
“...prima che il sole, la luce, la luna e le stelle s’ oscurino...”. Questi vari tipi di luce, ognuna delle quali illumina momenti diversi, rappresentano certamente la grande varietà di speranze che hanno illuminato il cielo dell’anima nostra durante tutta la vita. Talune, in certi momenti, sono state veramente delle stelle polari. Sembrava che determinassero un futuro meraviglioso. Poi anch’esse si sono spente, eclissate da altre luci più o meno seducenti... Ma verrà un giorno in cui tutte le luci che hanno attratto, illuminato e sedotto la nostra vita si spegneranno e tu conoscerai le tenebre! Se in quei giorni non avrai la luce della vita, sarà l’inizio delle tenebre eterne, sia fisicamente che spiritualmente. Quante “false” luci ti hanno attratto, durante la vita! Le tante speranze che ti hanno sostenuto, fatto gioire... Ingannevolmente. Come la falena è attratta dalla luce, anche noi siamo stati attratti da tante luci che un giorno si spegneranno!
“...e le nuvole tornino dopo la pioggia...”. Il cielo che ci sovrasta si alterna fra splendido sole e nubi che scaricano pioggia. È sempre stato così. Quindi è sempre lecito e naturale dopo la pioggia aspettarsi che torni il sole. Così, per esperienza e per aspirazione, dopo che le nuvole hanno coperto il nostro cielo, in senso morale, ci si attende che torni il sole. È sempre tornato durante tutta la vita! Ma verrà un giorno in cui, alle nuvole faranno seguito altre nuvole e dopo altre ancora, fino a che senza vedere mai più il sole il gelo della morte eseguirà una sentenza.
“...prima dell’età in cui i guardiani della casa tremano...”. La casa è il corpo in cui noi abitiamo. Le braccia e le mani sono sempre state la nostra difesa e la nostra forza. Ma viene un’età, in cui i guardiani non sono più in grado di guardare niente.
“...gli uomini forti si curvano...”. Nel fiore degli anni l’uomo è un capolavoro di armonia e di forza; ma viene il tempo in cui questa “colonna” si curverà, si piegherà sotto il peso della fatica del peccato e dell’usura del tempo. Questo piegarsi rappresenta il piegarsi sotto quel Signore che è tale anche per chi non Lo accetta; ed un piegarsi anche sotto la colpa. L’esistenza di chi non si sottomette al Signore, diventa un peso che schiaccia.
“...le macinatrici si fermano perché son ridotte a poche...”. Dopo la pienezza del vigore, inizia nell’uomo la fase degenerativa. Uno dei segni è la perdita dei denti.
“...quelli che guardan dalle finestre si oscurano...”. È chiaro qui che si parla della vista. Il vecchio ci vede sempre meno e non sono pochi quelli che finiscono nella cecità! Oltre al fatto fisico, “vederci” simboleggia anche sapere, conoscere correttamente. Così, mentre un tempo riteneva di sapere tutto, vicino a Dio, l’uomo comincia col perdere la vista. Ma anche moralmente, vede meno, ed in modo diverso.
“...e i due battenti della porta si chiudono sulla strada perché diminuisce il rumore della macina...”. non ha più desiderio di muoversi, di uscire; i movimenti si fanno lenti e l’udito diminuisce (si abbasserà il rumore della mola); la voce diventa fioca e insicura (si attenuerà il cinguettio degli uccelli); la memoria si fa incerta e manca la voglia di fare festa (si affievoliranno tutti i toni del canto);l’incedere diventa insicuro, le salite fanno venire il fiatone e ogni piccolo ostacolo rappresenta un pericolo (si avrà paura delle alture e terrore si proverà nel cammino); i capelli diventano bianchi (fiorirà il mandorlo); gli appetiti gastronomici e sessuali si affievoliscono (la locusta si trascinerà a stento e il cappero non avrà più effetto)
Per il Qoèlet la vecchiaia è come un lungo inverno al quale non segue più la primavera, ma la fine di tutto e la discesa nella tomba, accompagnati dai piagnoni che si aggirano per le strade della città in attesa del lavoro che certamente prima o poi verrà.
Una grande tristezza emana da questa pagina che descrive la fine del vecchio signore e della sua casa, con il filo d’argento della vita che si spezza per sempre. Assieme ad esso vanno in frantumi la lampada d’oro dell’intelligenza che illuminava quella nobile casa, l’anfora per dissetarsi alla fonte della sapienza e la carrucola che permetteva di attingere la saggezza al pozzo della storia.
Riassumendo, l’autore dà nel capitolo 12 il più grande messaggio di tutto libro: è l’epilogo e lo scopo di tutto il suo discorso. Egli ammonisce sull’urgenza di cercare il Creatore prima che sia troppo tardi e il “troppo tardi” lo indica in tre stadi diversi:
1º Prima di perdere l’interesse per il piacere.
2º Prima di perdere l’efficienza delle funzioni biologiche e generali dei vari organi vitali
3º Prima che cedano gli elementi essenziali alla vita ponendo definitivamente fine al ciclo biologico dell’uomo.
Dopo di che l’uomo torna a Dio che lo aveva inviato momentaneamente qui sulla terra. È importante rilevare con quanti dettagli e con quale approfondimento l’autore ha spiegato l’importanza della morte fisica rispetto all’incontro col Signore.
La salvezza dal disastro eterno deve avvenire sempre prima di questo momento, diversamente sarebbe troppo tardi.
Quando l’uomo muore il suo corpo ritorna alla terra dalla quale è venuto e il suo spirito ritorna a Dio che glielo aveva dato in prestito. Di più Qoèlet non sa dire e non si aspetta. Così la grande forza poetica di queste immagini suggella la terribile affermazione che fa da filo conduttore a tutto il libro: Vanità delle vanità, dice il Qoèlet, tutto è vanità!
Ed è qui l’ultima volta che lo dice. Ma a questo punto, dopo aver letto tutto il libro, il lettore potrà finalmente ben comprendere il significato di questa sentenza: Le cose, i sentimenti, le opere, l’amore, l’odio, il bene e il male, tutto quanto è vanità, perché tutto è inghiottito dal sepolcro, dalle tenebre, dal silenzio. Vanità, perché tutto viene azzerato e si ritorna daccapo. Ma questa volta per una condizione eterna! Una realtà eterna che è ancora tutta da spiegare.
Considerazioni:
Mi chiedo se questo libro ha valore ed importanza per il cristianesimo o, almeno, per il “dopo Cristo”.
Io sostengo che non solo non ha alcuna importanza ma che anzi contiene gravi deviazioni rispetto ad un cristianesimo puro a causa della tristezza che contiene, completamente contraria allo spirito cristiano; intendo però quello di Gesù, non quello della chiesa di Roma.
Ritengo che la gioia dell’animo umano deve e può esistere senza l’obbligo della fede. Se la vita “ordinaria” senza cristianesimo deve essere per forza triste, io nego la validità di questo tipo di cristianesimo.
Se ha importanza che un uomo possa sentirsi se non felice, almeno sereno, almeno appagato dalla propria vita, perché questa felicità o serenità dovrebbe dipendere solo dal fatto di essere cristiani? E’emblematico il fatto che si pretenda di dare ad uno scritto che ha preceduto Gesù di almeno duecento anni un significato (non un valore) di tipo “cristiano”, con una forzatura perfino ingenuamente evidente. E’assurdo inoltre pretendere che solamente la rivelazione cristiana potrà dare agli uomini l’unico mezzo per accettare la vita così come è. E’assurdo infine affermare che gli uomini abbiano “insopprimibili desideri di felicità”: essi hanno veri desideri di felicità ma non sono indispensabilmente “sopprimibili”, come implicitamente invece insinua la Chiesa di Roma. Semmai il desiderio dell’uomo è quello di riuscire a capire sempre più di che razza di liquido sia la realtà in cui è stato immerso dal momento in cui è stato tolto dal liquido amniotico con un gesto traumatizzante ma necessario.
Ormai da secoli gli uomini di buona volontà hanno capito che per avere un po’ di serenità, basta sapere accettare il proprio stato.
Hanno anche capito che dalla Chiesa di Roma possono avere solo una forma di serenità molto costosa
che pretende dedizione, obbedienza, rinuncia alle proprie idee.
Ma hanno anche capito che il potere temporale della chiesa, lungi dall’essere cessato, si è invece, almeno in Italia, purtroppo esteso a macchia d’olio dappertutto, per cui se un uomo vuole soddisfare
i suoi “insopprimibili desideri di felicità” deve arruffianarsi proprio le gerarchie ecclesiastiche: è la strada che garantisce il miglior successo nel cercare di realizzare i desideri di cui sopra nella vita di qua. Per quella di là basta semplicemente un atto di fede.