martedì 31 marzo 2020

Portatori di fuoco

di Carlo de Giacomo



Il termine fratello (frater) ha sempre suscitato in me una ridda di sollecitazioni e riflessioni che mi è sembrato di qualche utilità attirarne, in questo particolare momento del nostro “cammino”, l’attenzione dei Fratelli.
Superando indagini di carattere meramente semantico, penso che tale tematica possa suscitare, ben al di là di ogni mero soddisfacimento erudito, qualche riflessione di carattere esoterico, ed exoterico.
Appare evidente che il nome “fratello” in diversi idiomi, anche molto antichi, ha teso ad allargare la sua valenza, designando non solo il figlio dello stesso padre (e della stessa madre), ma spesso evocando una sorta di parentela mistica, di legame trascendente rispetto ai meri fatti biologici, una comune discendenza, a volte clanica, a volte elettiva o per scelta, da un patriarca storico o più di sovente mitologico.
Non è, quindi, un caso che, sulla scorta della tradizione cristiana in Occidente ( e non solo di questa) e degli usi consolidatisi nell’ambito delle confraternite professionali tardo-antiche e poi medievali, che, a loro volta, continuavano una tradizione legata al patrimonio di collegi professionali ancor più antichi, posti sotto la protezione di un padre fondatore o di un essere divino e quindi di un santo patrono, anche i Massoni abbiano adottato il termine Fratello per riconoscersi tra di loro ed abbiano designato come fratellanza la propria fratria o sodalizio spirituale.
Nel nostro caso, la “corda” che tiene allacciati i fratelli si annoda a partire dalla testimonianza simbolica ed esoterica del martirio di Hiram Abif, il padre di tutti i Liberi Muratori, i quali, non a caso sono detti “figli della vedova”. Non, quindi, “fratelli germani” o couterini secondo il destino o il caso, ma fratelli per scelta, e soprattutto per iniziazione.
L’ipotesi che spiega il termine indeuropeo bhr a ter - come “colui che accudisce il fuoco”, mi sembra però la più affascinante tra le tante, poiché immagina che i Massoni siano divenuti “fratelli” non solo perché iniziati nel solco della tradizione hiramitica, ma anche in virtù del fatto che essi si sono dimostrati degni e capaci di curare insieme il fuoco, in altri termini la luce della tradizione iniziatica.

E ben si attaglia questa interpretazione al mito prometeico.

Il terzo dramma di Eschilo, Prometeo portatore di fuoco conteneva il racconto dell’avvenuta liberazione, della riconciliazione di Prometeo con i nuovi dei e della loro accoglienza al titano liberato, assunto nell’Olimpo.
Nell’ultima parte, il poeta tratta di argomenti propri dei Misteri del culto prometeico nell’Attica. Che tali soggetti formassero parte dei misteri Sabasii, ci è fatto conoscere da molti scrittori antichi, fra cui Cicerone e Clemente Alessandrino.
Questi due scrittori, sono i soli che fanno risalire alla sua vera causa, il fatto che Eschilo fosse accusato dagli Ateniesi di sacrilegio e condannato alla morte per lapidazione. Essi affermano che Eschilo, non essendo stato iniziato, aveva profanato i Misteri, rappresentandoli nella sua trilogia, in un pubblico teatro. Ma sarebbe incorso nella stessa condanna anche se fosse stato iniziato e così deve essere effettivamente, altrimenti egli avrebbe dovuto possedere, come Socrate, un daimon che gli avesse rivelato il sacro dramma segreto ed allegorico dell’iniziazione.
In ogni modo, non fu certo il "Padre della Tragedia Greca" ad inventare la profezia di Prometeo; poiché egli ripeté solo, in forza di dramma, ciò che veniva rivelato dai sacerdoti durante i misteri nella Sabazia.
La Sabazia era una festa periodica, accompagnata da Misteri celebrati in onore di certi dei, una variante dei Misteri Mitriaci. Era una delle più antiche festività sacre, le cui origini sono, fino ad ora, sconosciute alla storia. Gli studiosi di Mitologia, la ricollegano, a causa di Mitra (il Sole, che in certi monumenti antichi era chiamato Sabazio), con Giove e Bacco.
Prometeo deriva dal greco   (pro metis), “previdenza”.
Alvin Boyd Kuhn considera il nome del Titano derivato dalla parola sanscrita Pramantha, lo strumento usato per accendere il fuoco. La radice manth, contiene l’idea di un movimento rotatorio e la parola manthami (usata per designare il processo dell’accensione del fuoco), acquistò il significato secondario di ‘rapire’, portar via; così troviamo un’altra parola dello stesso gruppo, pramatha, che significa furto.
La parola manthami passò nella lingua greca e divenne manthano "apprendere", vale a dire appropriarsi della conoscenza, da cui Prometheia - prescienza, previdenza, preveggenza.

Seguendo, quindi, questa direzione, noi possiamo trovare ancora un’origine più poetica al "portatore del fuoco".

Il libro di Cormac McCarthy “The road“, ambientato in un mondo ormai morto per l’effetto di una non meglio precisata catastrofe naturale o tecnologica, narra del percorso drammatico di un padre e di un figlio che lottano per la sopravvivenza ai margini di una civiltà annichilita e popolata da orde di cannibali.
L’uomo, in viaggio con il figlio, lotta per non morire e cerca di mantenere vivo nel bambino l’interesse per qualcosa che possa avvicinarsi ad una prospettiva di senso.
La condizione paradossale di sospensione nella quale si trovano i due personaggi, evidenzia l’angoscia del limite, la drammatica lotta che sospende il corpo tra la vita e la morte ma anche tra un’umanità da difendere tenacemente ed un’animalità che rischia sempre di prendere il sopravvento.
Questo secondo aspetto rende spettrale gli uomini, ed analogamente la natura ed i suoi baluardi simbolici, trasformando tutto ciò che circonda i protagonisti in una realtà grigia e vuota di senso.
McCarthy inserisce all’inizio del racconto quasi fosse un monito antropologico, la tematica prometeica che si pone a fondamento della “speranza” di una salvezza terrena incentrata sulla possibilità di ricostituzione della socialità perduta. Infatti, anche se la tematica dello sprofondamento nella barbarie è rievocata continuamente, i due protagonisti si definiscono fino alla fine “ portatori di fuoco”, cioè rappresentanti dell’ultimo sprazzo di umanità e di civiltà in un mondo nel quale le regole morali minime sono state perse. 
Così le domande del bambino sono volte a sottolineare continuamente il confine tra la barbarie e l’umanità, limite che i due protagonisti non possono permettersi di superare perché “ portare il fuoco” significa soprattutto non nuocere agli altri uomini.
Anche nel romanzo di McCarthy, dunque, la fiamma prometeica ha una funzione molto importante: mostrare l’esistenza di una speranza riposta nell’umanità ‘ostinata’ del bambino, nella sua determinazione a non cedere alla barbarie, nella sua volontà di continuare con estrema difficoltà a scindere il bene dal male.
Infatti, alla disperazione e alla collera del padre risponde l’ingenuità del bambino, la sua voglia di essere ancora umano.




«Ce la caveremo, vero, papà?» 
«Sì. Ce la caveremo» 
«E non ci succederà niente di male»
«Esatto» 
«Perché noi portiamo il fuoco» 
«Sì. Perché noi portiamo il fuoco»