venerdì 8 marzo 2019

Le essenzialità della riflessione: gli opposti in Hegel

di G. W. F. Hegel* 



L'opposizione di positivo e negativo vien presa principalmente nel senso che quello (benché secondo la sua denominazione esprima l'esser posto) debba essere un che di oggettivo, questo invece un che di soggettivo, che appartenga soltanto a una riflessione esterna, non riguardi per nulla l'in sé e per sé oggettivo, e addirittura non esista per lui. Nel fatto, quando il negativo non esprima altro che l'astrazione di un arbitrio soggettivo, oppure una determinazione di un confronto estrinseco, certamente esso non esiste per l'oggetto positivo, vale a dire che questo non è in lui stesso riferito a una tal vuota astrazione; ma allora la determinazione di un essere positivo gli è parimenti soltanto estrinseca. Così, per portare un esempio dell'opposizione fissa di queste determinazioni successive, la luce vale in generale come il semplice positivo, l'oscurità invece come il semplice negativo. Ma la luce nella sua infinita espansione e nella forza della sua efficacia di schiudere e vivificare ha essenzialmente la natura di un'assoluta negatività. L'oscurità all'incontro, come il non variato o come il seno, non distinguentesi esso stesso in sé, della generazione, è il semplice identico con sé, il positivo. Essa vien presa come il mero negativo nel senso che, come semplice assenza della luce, non esista affatto per questa, – cosicché la luce, in quanto si riferisce all'oscurità, non si dovrebbe riferire a un altro ma puramente a se stessa, e l'oscurità non avrebbe quindi, dinanzi alla luce, che da sparire. Ma, com'è noto, la luce viene viene oscurata dall'oscurità così da diventare il grigio; ed oltre a questo mutamento semplicemente quantitativo, essa subisce anche il mutamento qualitativo, consistente in ciò che dal suo riferirsi all'oscurità essa vien determinata a colore. – Così per esempio anche la virtù non è senza lotta; anzi è la suprema lotta, la lotta compiuta. In questo modo essa non è soltanto in confronto col vizio, ma è contrapposizione e combattimento in lei stessa. Ossia, il vizio non è soltanto la mancanza delle virtù, anche l'innocenza è questa mancanza, e nemmeno è solo per un'esterna riflessione distinto dalla virtù, ma è opposto a lei in se stesso, è cattivo. Il male consiste nel fondarsi in sé contro il bene; è la negatività positiva. Invece, l'innocenza, come mancanza del bene, quanto del male, è indifferenza rispetto a queste due determinazioni, non è né positiva né negativa. Ma in pari tempo questa mancanza è da prendersi anche come determinatezza, e da un lato è da considerarsi come natura positiva di qualcosa, come d'altro lato essa si riferisce a un contrapposto; e tutte le nature escono dalla loro innocenza, dalla loro indifferente identità con sé, si riferiscono di per se stesse al loro altro e con ciò si distruggono o, in senso positivo, tornano al lor fondamento. – Anche la verità è il positivo in quanto è il sapere che concorda coll'oggetto, ma è solo questa uguaglianza con sé in quanto il sapere si è condotto negativamente contro l'altro, ha penetrato l'oggetto e ha tolto quella negazione ch'esso è. L'errore è un positivo, come opinione di ciò che non è in sé e per sé, la quale si sa e si afferma. L'ignoranza invece è o l'indifferente a fronte della verità e dell'errore, epperò non determinata né come positiva né come negativa (mentre la determinazione sua, in quanto è una mancanza, appartiene alla riflessione esterna), oppure come oggettiva, come particolar determinazione di una natura, è l'istinto che è indirizzato contro di sé, un negativo che contiene in sé una direzione positiva. – È una delle conoscenze più importanti, quella di saper scorgere e tener ferma questa natura delle determinazioni riflessive ora considerate, che cioè la lor verità sta solo nella lor relazione reciproca, epperò consiste in ciò che ciascuna contiene nel suo concetto stesso l'altra. Senza questa conoscenza non si può propriamente fare alcun passo in filosofia.

* Dalla Scienza della Logica, volume II, Laterza, Bari-Roma 2004, pp. 487-488