martedì 2 ottobre 2018

L'utilità della democrazia

di Giancarlo Elia Valori*

Giancarlo Elia Valori e Tiziano Busca durante un convegno su valori umani ed economia

Davide Casaleggio, amministratore della Casaleggio Associati, la società di consulenza aziendale e informatica proprietaria di fatto del marchio “5 Stelle”, dice, in una recente intervista a “La Verità”, che i modelli novecenteschi di democrazia sono superati.
Dobbiamo, continua Davide Casaleggio, immaginare nuove strade e, senza dubbio, la Rete è “uno strumento straordinario”.
Il Parlamento, sempre secondo il manager informatico-politico, è, da qualche lustro (addirittura, quindi, fin dai tempi dei computer con i quali si poteva solo giocare) un “ente inutile”, proprio come l’Unione nazionale per la Lotta all’Analfabetismo, nata nel 1947, che invece oggi, ancora esistente, sarebbe di nuovo utilissima.
Evitare la delega, quindi, secondo Davide Casaleggio, fino alle supreme autorità. Tutti dicono la loro e poi si fa la sintesi.
Ma chi la può fare questa sintesi? Un governo di tutti? Una ulteriore votazione in Rete? E poi, chi protegge la rappresentanza di quelli che sono ancora in minoranza?
Mi sembra di essere ritornato alle assemblee dei licei degli anni ’70, con richieste pressanti al Presidente USA per far cessare la guerra del Vietnam e consigli non richiesti per le finanze pubbliche, di cui quei simpatici ragazzini non avevano nessuna idea.
Bene, e se, come probabilmente accadrebbe, il Presidente USA non li sente, o se non vi è una unica voce tra gli elettori-cittadini (capita spessissimo, credeteci), allora, ripeto, come si fa?
Si ripete, lo ripeto anch’io, la votazione tra tutti i membri di una nazione, cosa colossale e inverificabile anche con la tecnologia della Rete osannata dall’ attuale Amministratore Delegato della Casaleggio Associati s.r.l., scegliendo per l’espressione della maggioranza? E gli altri, vengono cancellati dal server?
Ma allora ritorniamo lo stesso ad un concetto molto simile alla rappresentanza democratica, dove vince la maggioranza, che però, in questo caso, non potrà non delegare ad altri l’esecuzione del suo volere. Chi sono gli altri? Gli amministratori del sito? I gestori del router?
E sempre lo dico, come tuteliamo, allora, la minoranza, che è invece difesa dai “vecchi” ordinamenti democratici? In una votazione dal basso, quelli che non sono d’accordo con “il maggior numero” sarebbero quindi eliminati dalla politica, magari linciati in effigie, privi di rappresentanza, segnalati a dito per il loro “errore”, come ai tempi delle “Guardie Rosse” cinesi?
Come si vede, il mito della democrazia (dal basso) è pieno di troppe fallacie e contraddizioni, che comunque nulla hanno a che fare con i miracolosi strumenti forniti dalla Rete.
Che, casomai, possono solo amplificarle.
Peraltro, come ha dimostrato anche la rete dell’Associazione Rousseau, anch’essa è piena di “buchi”.
La Rousseau, è noto a tutti, è una associazione fondata da tre soci, con tutti gli incarichi principali detenuti da Davide Casaleggio. Lo statuto non è pubblico. Cosa strana, per una associazione culturale. Il suo oggetto è: “promuovere lo sviluppo della democrazia digitale”
Dall’eguaglianza assoluta al “grande fratello”, è un tragitto che capita spesso, direi sempre.
E infatti, la democrazia, in Rousseau (quello vero) ovvero l’ipospadico ginevrino, si basa su una equivalenza finale, che non esiste né in politica né in natura, tra “volontà generale” e “volontà” di tutti”.
La volonté générale è quella idea che esiste innata in ogni uomo, che può comunque non essere da lui conosciuta né poco né in parte. Qualcuno deve magari dirgliela in toto.
Egli la può comunque scoprire e, quando e se la scopre, non può più fare a mano di seguirla. Come la tigre, che quando mangia l’uomo non può più farne a meno.
Già qui c’è un problema: non si è mai conosciuta, nella storia, una idea assoluta, politica, iscritta da sempre in ogni uomo nello stato di natura e poi da seguire, obbligatoriamente, se si vuole essere onesti con sé stessi.
Lo “stato di natura”, nella storia del pensiero politico, è una fictio filosofica e mitica per spiegare la propria forma ideale di Stato, ma Rousseau, evidentemente, ci crede davvero.
Da ciò deriva, peraltro, che quelli che non la seguono sono i “figli del maligno”, disonesti, nemici del popolo, frase tristemente nota in tutta la storia moderna. E lo sono “per natura” anche loro.
Quindi, quelli che non votano secondo la volontà generale sono da escludere, secondo il programma antico e nuovo di “Rousseau”.
Che voleva, il ginevrino, il ritorno alla natura, proprio perché l’uomo naturale, privo delle pericolose “scienze”, è semplice e non deformato dal sapere, nella sua natura profonda (che allora è innata in ogni uomo, anche lo scienziato, contraddizione, tra le tante, di Rousseau) e quindi non è manipolato dalle scienze, distruttrici della natura e delle qualità migliori dell’uomo.
Tra le scienze distruttrici il ginevrino metterebbe oggi anche l’informatica, state tranquilli.
La “volontà di tutti”, invece, è la fortunata combinazione di tutte le volontà soggettive verso l’unico bene, che è naturalmente la “volontà generale”.
Alla gente, come dice Rousseau, “occorre insegnare a conoscere ciò che astrattamente si vuole”.
E se questa fosse proprio la radice del totalitarismo?
Malgrado i riferimenti del ginevrino a Licurgo, Solone, Mosè, tutti tratti dal manuale del Politico per eccellenza, “il Principe” del Machiavelli, oggi il testo di Rousseau sembra piuttosto precorrere le notti di Norimberga, quelle dei “lunghi coltelli”, le oceaniche adunate di massa del duce, la “giusta linea” di Mao, le “purghe” staliniane, visto che i capi (magari anche della Rete) sanno ciò che è davvero il bene per il popolo che, ancora non ha superato la volontà di tutti per raggiungere la verità-volontà generale, che invece il Capo conosce e precorre.
Ed è sempre esatta, nella sua mente, non deformata dalle scienze, nemmeno da quelle informatiche.
Per uscire da questo che appare, oggi, il punto essenziale di crisi della democrazia odierna, chiamata a risolvere problemi globali con un elettorato legato giustamente al “particulare” machiavelliano, Emmanuel Macron, l’attuale presidente della Francia, erede quindi della monarchia “di tutti i francesi”, aveva studiato, non a caso, nella tesi di dottorato in Scienze Politiche, la vecchia e arcinota teoria del Machiavelli “repubblicano”.
Per due volte Macron non è entrato alla École Normale Superieùre, difficile che sia un buon Presidente.
Il segretario fiorentino è la fonte, insieme a Hobbes, proprio di Rousseau, e Macron rifrigge la vecchia tesi, elaborata per la prima volta proprio da Rousseau, e ripetuta malamente in Italia da Ugo Foscolo nei Sepolcri, dove Machiavelli è definito come “quel grande che temprato lo scettro ai regnator gli allor ne sfronda”.
Mussolini, nel 1924, definisce la fonte di Rousseau (e Hobbes sarebbe peggio), ovvero sempre Machiavelli, “il vademecum dell’uomo di Governo”. Ed è vero, anche oggi.
Ecco quindi da dove viene la teoria politica di Rousseau. Ma il ginevrino lo deforma nel Machiavelli universale, che esisterebbe nella mente e nel cuore di ogni uomo. Impossibile.
Ma la questione della democrazia rappresentativa è più moderna.
È infatti vero che la democrazia, a parte Atene, ovvero come mito di fondazione dell’evo moderno, nasce dai movimenti popolari e ereticali del tardo medioevo.
In questo caso siamo al “formaggio e i vermi” di Carlo Ginzburg, con l’eresia gastronomica e metaforica di Domenico Scandella, mugnaio, poi i Paesi di Cuccagna sperimentati nei carnevali, o le tante finis historiae che, da Fra Dolcino a Pietro Valdo e ai seguaci di Giacchino da Fiore, preconizzano tutte, in vario modo, l’età dello Spirito Santo.
Queste tensioni anti-verticistiche del medioevo si fondono, poi, come fatti politici e qundi religiosi, nel puritanesimo, allievo poco colto dei Càtari, distrutti dai loro simili Crociati; e dalla Chiesa di Roma.
Con il puritanesimo anglosassone, pieno di memorie precristiane, nasce la religione che non si rivolge solamente contro le caste di Roma o di Canterbury, ma cerca direttamente l’autorganizzazione delle masse per liberare il popolo dalla schiavitù, dall’oppressione, dalla sottoposizione cieca e servile al Re o alla casta sacerdotale.
Con la Rivoluzione britannica del Lungo Parlamento (1640) la tradizione puritana diviene poi esplicito progetto politico, di massa, in cui la religione si fonde con la rivoluzione popolare.
Altri, banali, parlerebbero di “rivoluzione borghese”, che ci fu appena in quella Francese del 1789, ma certo non ci fu in quella britannica, che vide subito la piccola borghesia già integrata nel popolo “basso”, mentre l’altra tentava l’arrembaggio alle classi nobili.
 L’Ancien Régime muore però, come ce lo ha insegnato Arno Mayer, con la fine della Belle Époque.
Tutte le matrici delle rivoluzioni, dal Medioevo alle rivolte moderne e apparentemente “laiche”, sono quindi cristiane.
Tutte le rivoluzioni sono per l’eguaglianza tra gli uomini, tra uomini e donne, per il richiamo alla legge naturale, che viene in seguito distorta dalla tradizione tomista fino a diventare un mito laico.
Ma il laicismo settecentesco si rifà, anche quando non se ne accorge, alla tradizione dei rivoltosi medievali, che maneggiavano la Bibbia e il Vangelo come basi della loro nuova, e primitiva e semplice, società.
Con molti paradossi, che vedremo proprio nello Stato Roussoviano.
Per esempio, Sylvain Maréchal, teorico quasi comunista dell’’età dell’oro” postrivoluzionaria, è un poeta arcadico, piuttosto mediocre, ma soprattutto è autore della “Proposta di Legge per proibire alle donne l’insegnamento della lettura e della scrittura”. Per allontanarle, è ovvio, dalla “deformazione” apportata agli uomini dalle Scienze.
È dal mito dell’età dell’oro, l’opposto logico e il ritorno inevitabile dello Stato di Natura, che arriva la “fine dei tempi”, quella che genera il Terrore, teorizzato anche da Marèchal, ovvero la tecnica per eliminare i “peccatori politici”, quelli che non si adeguano alla “democrazia diretta” in voga in quel momento.
E il mito della democrazia “diretta” torna ad ogni giro della storia.
Ostrogorski, che era però uno storico antico, parla di democrazia diretta come fenomeno atto ad evitare la degenerazione oligarchica dei partiti.
Ma un partito invisibile, che “gira nella Rete” e fa eleggere parlamentari con quei voti che non arriverebbero a nominare nemmeno un consigliere comunale a Caravaggio, non è certamente una rivolta contro le oligarchie, ma una oligarchia esso stesso, peraltro molto meno penetrabile dei partiti tradizionali.
Che, certo, anche loro presentano spesso candidati meno che mediocri, ma almeno i cittadini li vedono in televisione, o alla radio, e li “pesano”. Non li selezionano nelle segrete consorterie delle “parlamentarie” internettiane.
Come diceva Georg Christoph Lichtenberg, “i voti si pesano, non si contano solamente”.
Ma il peso vale sempre in due direzioni: dai cittadini ai parlamentari e nella via inversa.
E questo è il ruolo precipuo delle democrazie parlamentari. Esse selezionano i membri del Parlamento, e non solo sul piano della affinità tra le loro idee e quelle del candidato.
Ma anche sul piano delle professionalità specifiche dei prescelti, che pure possono essere adattate alle ideologie che, per voto di maggioranza, afferiscono nell’Aula.
Per usare metaforicamente i termini di Deng Xiaoping, l’autore delle “Quattro Modernizzazioni” cinesi, “meglio esperto che rosso”.
Con le “Guardie Rosse” che affermavano l’esatto contrario, la Cina era un vero disastro economico.
E, come ci ha insegnato Benjamin Constant, la democrazia ateniese era basata sulla identità locale e antica, oltre che genetica, dei selezionati elettori della città attica, che sceglievano certo da soli distribuendosi le cariche ma, soprattutto, andavano in guerra da soli.
Oggi, dopo la stabilizzazione post-1789, dice ancora Constant, il cittadino è un “privato” e si occupa del suo, direbbe Machiavelli, particulare.
Quindi non può non scegliere alcuni, che ritiene insieme a lui politicamente vicini e anche abbastanza “esperti” per condurre gli affari dello Stato, che egli non può mai conoscere appieno e che, essendo ben più complessi di quelli tipici di una antica città di mercanti-agricoltori, non potrebbe certamente risolvere da solo.
Ecco la ratio operativa e insostituibile della democrazia dei moderni.
E poi, occorrono sempre la Storia e la Passione. Senza Mazzini, Garibaldi, De Gasperi, Togliatti, Moro, Cossiga e tanti altri, non ci sarebbe stata l’Italia. Monarchica e Repubblicana.
Senza un’Idea, un progetto metapolitico, un Mito, una Idea-Forza per la quale si può anche morire, e da Eroi, non esiste né uno Stato, né i Confini, né classi dirigenti degne di questo nome.
La Resistenza antifascista è stata posta in atto da circa 13.000 uomini e donne, mentre alla RSI aderirono, con successive defezioni di massa, 558.000 militari in Servizio Permanente Effettivo.
Il Risorgimento non si può fare senza eroi, malgrado quello che diceva Piero Gobetti, senza i capi non ci sono le masse, e non si creano i miti che pure hanno generato l’ideale della “democrazia diretta”.
Ho perfino qualche dubbio sul Risorgimento “Rivoluzione incompiuta” di Gramsci. Tra i Mille della missione nelle due Sicilie c’erano molti impiegati, artigiani, piccoli imprenditori, perfino operai. Anche loro erano, a tutti gli effetti, Eroi del Risorgimento. La piccola borghesia, motore dell’Italia.
Ecco, non vorremmo che, con la selezione attuale sulla Rete, con qualche eccezione, dei parlamentari e dei dirigenti del MoVimento 5 Stelle, si arrivasse all’idea, già peraltro apertamente manifestata da tale organizzazione, che “uno vale uno”.
Lo pensava, questo ben principio, anche il boia rivoluzionario che uccise Lavoisier, durante il Terrore, quel geniale fondatore della chimica moderna: “La repubblica non ha bisogno della scienza!” Urlò uccidendolo.
Già, ma oggi, senza le equazioni di Lavoisier, non otterreste nemmeno il bicarbonato di sodio per digerire i pasti della buvette.
Ecco, qui volevo arrivare: uno non sarà mai uno. Ed è un vero pericolo pubblico numero uno il pensarlo.
Se non aveste avuto Guido Carli, un caro amico che qui ricordo con affetto, i vostri nonni o padri non avrebbero avuto il “miracolo economico”.
E mettere il primo che passa all’”Ufficio cambi” sarebbe stato un colossale disastro, indipendentemente dal titolo di studio del passante.
Chiedete anche al suo migliore allievo, Paolo Savona.
Se non ci fosse stato Francesco Cossiga alla Presidenza della Repubblica, saremmo stati inseriti presto nel limbo della NATO e della Unione Europea, con inimmaginabili, nemmeno oggi, riflessi finanziari e industriali.

Uno non sarà mai uno. Ma vi auguro di trovare, se mai ci riuscirete, qualcuno che non possa mai essere solo un “uno”.

Elia Valori con Mauro Cascio e Tiziana Della Rocca (Il Foglio, Il Fatto quotidiano) durante lo stesso convegno

Honorable de l’Académie des Sciences de l’Institut de France