martedì 3 febbraio 2015

L’Origine della Morale

a cura di Federico Pignatelli



Quando si parla di morale si ha la sensazione di trovarsi di fronte al termometro regolatore della nostra vita: anzi la maggior parte degli uomini pensano ad essa come ad una specie di spada di Damocle, la quale indica il lecito e il non-lecito, piuttosto che il giusto o il non-giusto.
Si può dire che le cose stiano così da quando per l'uomo é cominciata la storia nel senso occidentale del vocabolo risalente alla nota enunciazione di Erodoto di Turi. Infatti secondo la concezione greca in generale ed erodotea in particolare la storia appare come la materializzazione, onde trarne insegnamento, dell'antica sophia, ovverosia sapienza; in termini spiccioli la storia fissava quello che era stato il comportamento, il costume, degli avi perché in qualche modo servisse da norma cui attenersi per le generazioni successive. In tal modo il comportamento di un antenato ritenuto illustre per i più svariati motivi divenne norma regolatrice della vita di chi, almeno, ambiva a divenire altrettanto illustre: come del resto succede oggi. È evidente, a questo punto, che la morale non è nata quale sofistica disquisizione sul lecito o sul non-lecito e tanto meno sul giusto o sul non-giusto: essa sì é presentata piuttosto come la storicizzazione continua, in un progressivo affastellarsi e cumularsi, degli usi e dei costumi. Basti pensare che da un punto di vista eminentemente pratico e giuridico ancora oggi la consuetudine locale ha valore di legge, tanto forte che a volte è addirittura in contrasto con quella che può essere una legge del codice nazionale o internazionale.

Solo molto più tardi quando la coscienza dell'uomo si fu enormemente allargata e ingigantita tanto da divenire in certo qual senso autocosciente, solo in altre parole con l'inizio della storia, cominciarono le disquisizioni razionali anche sulla morale. Allora dimenticando completamente il lungo e plurimillenario cammino che aveva portato faticosamente l'uomo alla conquista del senso della morale si cominciò a discutere sul lecito e sull'illecito, sul giusto e sull'ingiusto, pensando che il senso morale fosse stato instillato nell'uomo da quella che era divenuta la massima astrazione e personificazione del concetto morale e cioè da Dio e dagli dèi. In tale situazione mentale, per esempio, sono i filosofi e i poeti di tutte le letterature mediterranee. Tanto per fare un esempio Zeus fra gli altri innumerevoli compiti aveva anche quello di presiedere alla ospitalità. Quando Ulisse si allontana dal Ciclope accecato gli impartisce in generale una formidabile lezione di morale: in modo particolare sul dovere dell'ospitalità cui il gigante era venuto meno. Anzi il senso morale di Ulisse è tanto elevato che ad un certo punto egli, personale autore della sciagura toccata al Ciclope, scompare ed entra in primo piano Zeus, custode sommo di quel tipo speciale di moralità, il quale si presenta come colui che veramente ha punito Polifemo.

Nella medesima condizione critica di accettazione della morale e quindi di una sua presentazione nella luce del lecito e dell'illecito razionale si trovano i farisei allorché si recano da Gesù con l'incarico di trarlo in inganno ponendogli il celebre dilemma se fosse lecito o no pagare il tributo a Cesare, per un ebreo. La posizione dei farisei, impeccabilmente logica sul piano razionale, tradisce in modo evidente l'allontanamento dell'uomo dalla sua naturale avanzata in una perfezione progressiva con l'appello fatto a norme codificate, del tutto esteriori e con significato temporaneo, ritenute per altro eterne ed immutabili. Dio aveva comandato per bocca di Mosè al suo popolo di non rendere omaggio se non a lui solo: il tributo pagato a Cesare non era dunque un'offesa recata alla divinità? La logica era perfetta, ma gli stessi farisei avevano sentore che la giustizia delle cose stava ben diversamente. Essi sapevano benissimo che cosa intendeva vietare la parola di Mosè in quel particolare momento della storia del loro popolo e conoscevano parimenti molto bene il diverso valore che aveva il tributo pagato a Cesare, arrivando magari a giustificarlo perfino razionalmente col vago barlume di coscienza del moderno dovere civico del cittadino di pagare le tasse.
La risposta data dal profeta Galileo fu di una semplicità tragica e rasserenatrice. Egli superò a volo i cavilli di una logica che rischiava di divenire morale senza esserlo minimamente, affondando i bagliori della sua luce nella coscienza, prospettata quale origine e al tempo stesso limite del senso della morale. Gesù si richiama non già a sofismi razionali più o meno logici, bensì alla realtà del presente. Con grande stupore dei farisei egli li invita sul momento a riconoscere la moneta da essi addotta quale motivo di scandalo e poi li invita a comportarsi secondo giustizia, unico fondamento della legge morale, e non secondo il ragionamento che è e deve essere frutto anch'esso della giustizia. A chi appartiene quella moneta? Appartiene a Cesare. Ora se appartiene a Cesare per quale motivo la divinità, che é fra l'altro giustizia somma, dovrebbe offendersi se viene dato a Cesare quel che gli appartiene? In tal modo i farisei che avevano creduto di aver trovato sofisticamente e denunciato un comportamento immorale nel pagamento del tributo vengono essi stessi implicitamente accusati di immoralità per il semplice fatto di avere sollevato la questione, volendo attribuire alla divinità ciò che non le apparteneva in quanto indegno di lei.

Con quanto esposto sopra inizia a delinearsi abbastanza nettamente la nostra tesi sulla morale e sul modo di intenderla. Noi crediamo infatti che la morale, anche e soprattutto intesa come legge divina, sia nata con l'uomo e non prima di lui. Essa infatti costituisce la ragione stessa ed ultima del suo evolversi continuo e progressivo, la legge interna che lo porta alla realizzazione finale di se stesso nell'individuo e nella specie. Si può dire che, sopra i cavilli logici coi quali si è tentato di caratterizzare la morale, soltanto la parte semantica del vocabolo, del tutto esteriore a qualsiasi significato razionale, non abbia subito violenze logiche. Infatti, morale o etica indicò nel passato e indica filologicamente tuttora il modo di comportarsi, gli atteggiamenti nel loro insieme dell'uomo o anche gli usi ed i costumi di un popolo. Proprio per ciò si è soliti parlare di costumi diversi e di affinamento o di degenerazione di questi, specialmente in riferimento all'arco storico evolutivo delle varie civiltà.

Appare evidente che il significato più vero ed autentico di morale è quello insito al fondo del suo valore verbale: anche se tale affermazione può sembrare a prima vista alquanto grossolana ai filosofi morali di professione. Basti tenere presente a questo proposito il fatto molto illuminante che si verifica nelle elaborazioni teologiche di tutte le religioni dopo il superamento delle fasi più naturistiche: la teofania più pura e più elevata si concretizza nell'uomo. Il santo, l'anacoreta, sentono realizzare in se stessi Dio e la sua legge, anzi si può dire che il loro essere ne diviene ogni giorno di più la strumentalizzazione più completa e perfetta. Fra gli altri, non l'ha detto anche Paolo di Tarso che l'uomo è il tempio vivente di Dio? È chiaro pertanto che le sue azioni, che descrivono giorno per giorno il suo atteggiamento costituendone la morale, vengono regolate da norme ben precise.  Ma qui sta il punto: di quali norme si tratta? sono esse esterne e prefabbricate all'uomo? O non scaturiscono piuttosto dall'avanzamento progressivo e illimitato della coscienza già conquistata e cumulata? Non è forse questa appunto la morale, l'allargamento continuo, in una espansione infinita per ricevere e realizzare Dio, della coscienza (cum-scientia) in atteggiamenti sempre più aperti nel senso che non contraddicono quelli già consolidati?

Uno sguardo anche superficiale alla nostra storia di uomini, storia che noi siamo convinti coincida perfettamente con la nostra evoluzione morale, può darci la misura dell'attendibilità di questa tesi.
Per migliaia di anni i rapporti umani sono stati regolati sulla schiavitù ed è noto che lo schiavismo fu tanto morale che il moralissimo Platone (e non solo lui) dubitò perfino che lo schiavo avesse un'anima immortale! La posizione di Platone nel mondo antico e nel successivo sviluppo del pensiero occidentale é molto significativa a proposito della razionalizzazione della morale. Infatti la postulazione delle idee eterne e immutabili, esterne all'uomo, iperuranie e divine, dualizzò definitivamente l'umano e l'uomo; per cui quella che altro non era se non la sua condizione e la sua struttura, per così dire, fisiologica, venne prospettata quale norma metafisica. Ma l'assurdità della posizione mentale del moralissimo Platone nella realtà pratica è smantellata, ci sembra, dalla seguente considerazione. È noto che il divino filosofo bollò di immoralità i Sofisti al punto che ancor oggi tale giudizio pesa decisamente sulla comprensione valutativa di questi. Ora circa lo schiavismo, mentre Platone, come già abbiamo ricordato, lo riconosceva e lo accettava dubitando anche che lo schiavo possedesse un'anima, il sofista Alcidamante affermava testualmente: «Iddio fece tutti liberi: nessuno la natura fece schiavo!». A questo punto c'è da chiedersi non già chi fosse più morale, se Platone oppure Alcidamante, ma piuttosto chi dei due, sopra e oltre le giustificazioni razionali del lecito e dell'illecito, fosse più da vicino approdato alla giustizia.  Perché è proprio qui che la morale corre il rischio di naufragare: nel porre sullo stesso piano il giusto e il lecito. Mentre infatti il lecito è il frutto delle giustificazioni logiche e razionali, il giusto è il risultato di un atto d'amore nella scelta che la coscienza fa nell'agire: amore verso il proprio essere e contemporaneamente verso tutte le altre creature, in quanto non si comporta utilitaristicamente, ripiegando per l'interesse proprio alle posizioni già conquistate ma tende a fare un ulteriore passo avanti sorpassando quel che le sarebbe pur lecito fare ma che facendo non la renderebbe per nulla migliore. Perché questo, ci sembra, è il compito e il fine e la natura della morale; qui sta la sua realizzazione: nel migliorare dell'essere e in modo particolare nel fatto che l'uomo diventi migliore. Qui anche teoreticamente riposa la sua storicità: nell'essere l'uomo esistenzialmente gettato nel tempo e quindi nel fatto che il suo vivere è alla fin fine una serie ben precisa di azioni, di atti che alla fine lo qualificano nei confronti di se stesso e degli altri.  Ora la storicità della morale e la sua realizzazione consistono in questa serie di azioni: specificatamente la sua positività é legata e condizionata dalla giustizia perseguita con tali azioni, tanto che queste possano appunto rendere migliore l'uomo.

Migliore rispetto a che cosa? Questo é il mistero e l'essenza stessa che avvolgono il nostro essere umano. Ma certo anche rispetto a questo «che cosa» possiamo essere sorretti dalla presunzione di poter dire che esso consista nell'amore, nella tolleranza, nel non turbare la pace del naturale svolgersi delle cose. Non era già questa la grande intuizione dell'essere dominato da odio e da amore enunciata da Empedocle di Agrigento? Non ha detto anche il profeta Galileo che l'uomo non deve sconvolgere ciò che Dio ha ordinato?.

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