mercoledì 27 maggio 2009

TANTI I MASSONI IN DIVISA, SCIARPA E GREMBIULINO

Il dibattito sulla vera identità del regime fascista registra un’accelerazione. Paolo Rossi, caposcuola del pensiero filosofico con Eugenio Garin nelle ultime fasi del fascismo e durante la Repubblica, ha ammesso che gli intellettuali si mostrarono compattamente fedeli al regime sino al 1942, vale a dire alla sconfitta militare dal Don all’Africa settentrionale. Fino a quel momento, asserisce Rossi pensando a quanti poi fecero il salto della quaglia, quegli intellettuali forse erano un po’ antifascisti, ma in segreto («nicodemisti»). Bruciavano grani d’incenso al duce in tutte le inaugurazioni di anni accademici, gli scrivevano per ottenerne indulgenza e protezione (fu il caso di Alberto Moravia e di Norberto Bobbio, ormai notissimi) ma sotto sotto speravano che cadesse. Sergio Romano ha osservato che non si trattò tanto di «nicodemismo». Quegli intellettuali erano al seguito di vari capibastone (Ciano, Bottai, Balbo, Farinacci…) che consentivano tante piccole eresie e la coesistenza di vari fascismi, intenti a disputare sulla vera natura del regime. All’elenco di Sergio Romano vanno aggiunti Ugo Spirito, capofila del corporativismo, che ritroveremo nella Rsi e nel dopoguerra, i clericofascisti e, soprattutto, i tecnici passati negli Anni Venti dall’antifascismo al mussolinismo. Qualche esempio? Alberto Beneduce, già componente della giunta di governo del Grande Oriente, antifascista dichiarato, ma poi artefice dell’Iri e della riforma della Banca d’Italia, presente a titolo gratuito in quaranta consigli di amministrazione convinto che Mussolini stesse ammodernando l’Italia grazie ai poteri che il Parlamento aveva negato a Giolitti e ai governi liberaldemocratici ma che aveva poi concesso al «Trucio» che minacciava di trasformare la Camera in bivacco per i suoi manipoli di camicie nere. 

Nel Ventennio, soprattutto se visto dal Piemonte, avvennero due travasi altrettanto importanti a vantaggio della continuità delle istituzioni. In primo luogo un robusto nucleo di industriali, finanzieri e scienziati massoni collaborò apertamente con il governo, garante della stabilità sociale e di riforme. Fu il caso di Vittorio Valletta, membro della Gran Loggia d’Italia nata nel 1908 per scissione del Grande Oriente, impelagato in beghe di politica spicciola. Ancora più importante fu il cospicuo numero di alti ufficiali (Marina, Aviazione e soprattutto Esercito e corpi tecnici) che irruppe in loggia tra il 1922 e il 1925. Essi fecero quadrato in difesa della monarchia, di Vittorio Emanuele III, garante delle libertà statutarie. Qualche nome? Se ne è parlato ieri in un importante convegno a Cagliari (antico Regno di Sardegna) per iniziativa della Gran Loggia d’Italia su «Massoneria, Esercito e monarchia nel regno d’Italia». 

Studiosi di prestigio (il generale torinese Oreste Bovio, già Capo dell’Ufficio Storico delle Stato Maggiore), Tito Orrù, emerito di storia moderna, Nicola Pedde, della Sapienza di Roma, Sergio Ciannella, Luigi Pruneti hanno approfondito i vari aspetti di una vicenda affascinante. Basti pensare che quasi tutti gli alti gradi delle Forze Armate erano massoni: il cuneese Luigi Capello, il Maresciallo d’Italia Ugo Cavallero, che rifiutò di aderire alla Rsi e venne «suicidato» da Kesselring, il grande Enrico Caviglia e un lungo elenco di militari dalla schiena diritta, provati dalle leggi razziali che determinarono l’estromissione dalle forze armate di ebrei, tra i quali appunto l’ufficiale più decorato d’Italia, frettolosamente richiamato in servizio per riorganizzare il porto di Taranto bombardato dagli anglo-americani. Quei militari costituirono l’uscita di sicurezza dal regime, dopo la morte del massone Italo Balbo, l’eclissi di Giuseppe Bottai e di Dino Grandi, massoni entrambi, e il ritorno sulla scena di nazionalisti e democratici che avevano conosciuto a fondo il mondo italiano e internazionale delle logge. Fu il caso di Ivanoe Bonomi e di Ferruccio Parri. La parola d’ordine fu: ritorno alla normalità, ripristino dei diritti. La massoneria si rivela insomma una scuola morale consustanziale alla disciplina militare, come avevano insegnato il filosofo fossanese Balbino Giuliano (a lungo ministro dell’Educazione Nazionale, massone), il generale Pietro Gazzera di Bene Vagienna, per quattro anni alla guida delle Forze Armate. 

Lo mostrò lo stesso Vittorio Emanuele III che aveva in loggia tanti suoi pari grado: sovrani o ex sovrani dalla Spagna alla Gran Bretagna,dai vertici della Repubblica francese alle Case principesche germaniche, a tacere dei sovrani di Svezia, Danimarca, Grecia. Un fondamentale capitolo della storia contemporanea può dunque essere meglio compreso passando senza falsi scandalismi, attraverso le colonne dei templi. Un valido ricercatore, Marcello Millimaggi, documenta la misura davvero impressionante dei militari che alternavano la divisa d’ordinanza a sciarpa e grembiulino.  Dopo lo scioglimento delle logge (1925) rimasero al loro posto e prepararono giorno dopo giorno il ritorno alla libertà.  Dinnanzi a queste ricerche serie e innovative, il mito secondo il quale la Massoneria è geneticamente giacobina e repubblicana, tanto caro a studiosi come Gian Mario Cazzaniga, crolla rovinosamente; e con tante leggende. La verità, quella dei fatti storici, non inquinata da chiacchiere, si fa strada. Finalmente. 

Fonte:  di Aldo A. Mola su Il Giornale del Piemonte 24 maggio 2009 comunicato da Riccardo C.