Domani 11 Ottobre 2008 ore 10.30. Presso la casa massonica Romana innalzamento delle colonne della R.L. Voltaire 1328 all’Or. Di Roma.
La redazione del Blog cogliere l'occasione di questo lieto evento per riproporre un interessantissimo articolo di A.C. e tratto da "Hiram", n. 10 dicembre 1992 - pag. 60. Ed. Società Erasmo. Esso è pure presente in moltissimi siti sul web.
Il 30 maggio 1778, alla vigilia della rivoluzione, Voltaire muore. La voce della ragione, della libertà e del progresso si spegne. Tredici anni più tardi, nel 1791, le sue spoglie mortali verranno deposte nel Pantheon.
Quella sera d'aprile, c'erano tutti, o quasi i più bei nomi dell'intellettualità di Francia facevano degna corona all'ottantaquattrenne "patriarca".
Nella Loggia "Les neuf soeurs" - forse la più brillante di tutti tempi - lo consacravano massone; lo iniziavano massone con una semplice e, al tempo stesso, solenne cerimonia che aveva il sapore, affettuosamente fraterno, d riconoscimento per una vita magistralmente dedicata a trionfo dei reali valori muratori.
Nel 1778, Voltaire, tornato nella sua Parigi, assaporava l'ebbrezza del trionfo che la città, e con essa la Francia, gli decretavano e si sentiva ripagato di 28 anni di esilio.
Sedendo tra i Fratelli, occupava, da uomo libero, il posto che da sempre era suo.
Libero lo era stato fin dall'adolescenza.
L'anelito alla libertà, ancora confuso, aveva fatto intruppare il diciassettenne Francois-Marie Arouet (questo il vero nome di Voltaire), allievo dei Gesuiti, nei liberi pensatori della "Societé du Temple".
Un innato senso di ribellione alle imposizioni lo aveva spinto a scontrarsi con il padre, paludato "Grand Commis", che, scandalizzato dalla condotta del ragazzo, tentò, senza riuscirvi, di farne un uomo di legge.
Francois, puledro di razza, scalpitava, non tollerava ordini e, applicandosi intensamente da grande autodidatta agli studi preferiti, quelli letterari, si accingeva a lanciarsi nei cieli della poesia e negli spazi infiniti della libertà.
Il mondo, al quale si affacciava, era la incipriata settecentesca Francia dell'assolutismo e del dispotismo monarchico, dei privilegi feudali, del dominio oscurantista della Chiesa, delle decime, della venalità delle cariche, del caos delle istituzioni separate che soffocavano il regno della legge, vale a dire quell'ancien règime, in cui trionfavano fanatismo religioso, pregiudizi, superstizione e ingiustizia, e che l'impetuoso vento del 1789 spazzerà via.
Il giovane Arouet prova a stuzzicare l'apice di questa costruzione.
Gli strali della sua pungente satira, che diverrà una delle sue armi migliori, colpiscono il Duca d'Orléans, reggente il trono di Francia, e i suoi amori incestuosi.
E' la prigione.
Un anno alla Bastiglia, che varrà a far schiudere la crisalide Arouet e a far volare la farfalla Voltaire.
Il nuovo nome, che consacrerà alla storia Francois-Marie Arouet, è causa di litigio con il Cavaliere di Rohan, rampollo di una delle più superbe famiglie nobili del regno.
Voltaire verrà bastonato dai lacchè del Cavaliere e rinchiuso, ancora una volta, in prigione.
Uscirà accettando l'esilio: in Inghilterra.
E' il 1776.
Voltaire ha trentadue anni e ha già assaporato il trionfo alla Comédie Française con la tragedia "Oedipe".
Per la terza volta abbandona Parigi.
Lo farà altre volte, per sfuggire alla persecuzione.
Il soggiorno nelle isole britanniche - un paio d'anni - può essere considerato decisivo per la formazione di Voltaire "philosophe" (nel senso settecentesco del termine), uomo e politico.
Come tale, da quel momento, appartenne a coloro che si sentivano di guidare il progresso dei popoli con il lume della ragione. Più in là negli anni, divenne il simbolo vivente dell'età dei lumi.
Enciclopedico, padrone dello scibile del XVIII secolo, si rifiutava però di costringere il suo pensiero in un articolato e compiuto sistema filosofico: "La sistematica - diceva - offende la ragione".
E nessuno fu più efficace di Voltaire nell'usare la ragione, un'arma, quando era lui a brandirla, affilata spesso dalla sua risata, senza che, come scrive Russel, sostituisse un dogma a un altro.
In Inghilterra, Voltaire, a contatto con una società trasformata dalla "rivoluzione silenziosa" del secolo precedente, arricchisce mente e spirito e compone le "Lettres philosophiques".
Queste, giustamente definite "la prima bomba scagliata contro l'ancien règime, possono considerarsi il manifesto degli ideali volterriani di tolleranza, di eguaglianza, di libertà. Tolleranza è per lui convivenza pacifica di uomini dalle opinioni e credenze diverse; eguaglianza è per lui pari opportunità per tutti di raggiungere - sotto l'usbergo delle leggi - mète elevate, in virtù della capacità e non dell'estrazione sociale; libertà è per lui possibilità offerta a ognuno di esprimere senza timori - opinioni politiche e religiose.
Voltaire avrà occasione di esporre, in modo più o meno palese, queste idee e altre, su Dio, sulla metafisica, sugli ordinamenti politici, nella sua immensa produzione (15 milioni di parole scritte).
Anche le sue composizioni poetiche, epiche, le sue tragedie contengono quello che diremmo oggi un messaggio.
Il poema epico "Henriade", ad esempio, esalta Enrico IV quale unico Re francese che abbia dimostrato un'illuminata tolleranza religiosa; le tragedie "Zaire" e "L'orphelin de la Chine" hanno come tema di fondo la resistenza alla tirannide e l'affermazione della libertà.
Alla tolleranza dedicherà un trattato.
"Che cosa è la tolleranza?" si domanda.
E risponde: "E' il retaggio dell'umanità.
Noi siamo tutti impastati di debolezze e di errori; perdoniamoci reciprocamente le nostre corbellerie: è la prima legge di natura."
In un altro libro, "Traité de métaphisique", si propone principalmente di dare risposta a due quesiti: "C'è un Dio? E, se c'è, quali sono i suoi rapporti con l'uomo?"
Anche se Voltaire rifiutava d'inoltrarsi nel labirinto delle discussioni sulla causa causarum, sul determinismo, sul libero arbitrio, ecc., e l'uso scintillante del ragionamento lo spingeva all'agnosticismo, tuttavia non si stancava di combattere l'ateismo e di proclamarsi deista.
Deista, non perché credesse in una specie di rapporto o interazione continuativa o finalizzata tra l'uomo e una qualsiasi divinità, ma perché riteneva l'essere umano finito e, in quanto tale, prodotto da una causa prima che lo trascendeva, causa che per comodità poteva chiamarsi Dio.
Il deismo volterriano era in perfetta sintonia con gli antichi doveri codificati dal Fratello Anderson nelle costituzioni massoniche del 1723.
Ma c'è di più.
L'amore di Voltaire per l'umanità, il suo concetto di fratellanza, si manifesta, in modo tormentato, dopo il terremoto che, nel giorno di Ognissanti del 1755, distrusse la città di Lisbona e provocò migliaia di vittime.
Quando neviene informato, Voltaire ha una reazione di orrore.
Colpito profondamente, affila la penna e crea, in poco tempo, il "Poème sur le désastre de Lisbonne".
"Centomila formiche, il nostro prossimo, uccise d'un sol colpo nel nostro formicaio e metà di loro che periscono senza dubbio in inesprimibili angosce", scrive.
Il poeta è ossessionato dall'idea che il mondo è pazzo; pazze le guerre, che gli uomini, abitanti una tana a forma di palla, si fanno e, con la loro condotta, si procurano più male di quanto ne facciano le catastrofi naturali; pazzi coloro che ritengono questo il migliore dei mondi possibili.
Per dimostrare questo assunto, crea il celeberrimo "Candide", il suo capolavoro satirico, autentico best-seller, ancora pubblicato, ancora letto e apprezzato.
Per combattere le sue battaglie contro un mondo che gli è ostile, Voltaire aveva bisogno di sicurezza economica e di un rifugio.
La prima se la procura al ritorno dall'Inghilterra.
Il sangue degli "affaristi" Arouet, da lui disconosciuto (l'aver mutato il nome ha molto probabilmente questo significato), si risveglia: in modo lecito, specula in obbligazioni della municipalità parigina e lorenese e sul mercato del grano. In un anno diventa ricco.
Per non incappare nel mandato di cattura spiccato nei suoi confronti, dopo l'introduzione in Francia delle "Lettere filosofiche" pubblicate per la prima volta in Inghilterra, il rifugio lo trova nel castello di Cirey che per sedici anni diverrà nido d'amore, laboratorio d'idee, base d'operazioni.
La proprietaria, marchesa di Chatelet, diviene per Voltaire, in quel periodo tutto dedicato allo studio e alla produzione, ("Siècle de Louis XIV", "Elements de Newton", "Mahomet", "Mèrope", "Sémiramis", "Pandore", "La prude", "Zadig", "Essai sur le moeurs", e altri), amante, amica, compagna nelle ricerche e negli studi scientifici, e poi - come confessa il filosofo, addolorato dopo la morte della sua amica -più di un padre, più di un fratello, più di un figlio.
Cirey lo metteva al riparo da brutte sorprese, perché località non agevolmente accessibile (due o tre giorni di viaggio da Parigi, che diventavano cinque o sei nella brutta stagione) e molto vicina, non si sa mai, alla frontiera.
Non sempre Voltaire riusciva a non mettersi nei pasticci.
E' vero che gli si deve senz'altro attribuire una particolare genialità e capacità di far circolare, in un ambiente ufficiale ostile, le sue opere e le idee in esse contenute.
Nessuno infatti mai utilizzò con maggiore abilità la dissimulazione.
Pubblicò libri anonimamente; sconfessò opere che portavano il marchio del suo ingegno; attribuì le sue produzioni più audaci ad autori che si trovavano al sicuro all'estero o che, ancora più al sicuro, erano morti; usò editori che falsificavano le pagine del titolo e del luogo di stampa; cambiò le date dei suoi scritti per confondere i censori; fece stampare i suoi libri all'estero per poi introdurli clandestinamente in Francia.
Queste sono le sue strategie più note. Meno note e più ingegnose le strategie che usava nei suoi scritti; come un buon giocatore di poker, usava un'ampia gamma di bluff.
A volte, diceva più di quello che intendeva dire.
Altre volte, diceva meno di quello che intendeva dire; diluiva le opinioni più pericolose con altre, più innocue, che non condivideva.
Altre volte ancora diceva esattamente ciò che intendeva dire, ma negava ogni responsabilità per quanto aveva detto e attribuiva la sua opinione a un eretico o a un pagano.
A volte, diceva esattamente ciò che intendeva dire, ma dichiarava di deplorare le sue stesse opinioni.
Ciononostante, temendo per la sua persona, cercava di mettere quanta più distanza poteva tra sé e i suoi persecutori.
Come fece dopo la pubblicazione dell'iconoclastico poemetto "Le mondain" (descrisse Adamo ed Eva che si nutrono di miglio e ghiande), recandosi ad Amsterdam.
Ma Cirey non sarà il suo ultimo rifugio.
Più e più volte esiliato, incarcerato, minacciato di arresto, bastonato, perseguitato, spiato, costretto a vedere regolarmente proibire, sequestrare e ardere sul rogo le proprie opere, nel 1749 si convince che né la straordinaria fama ormai acquisita, né la protezione di amici influenti, né il remoto ritiro di Cirey, né la ricchezza crescente gli avrebbero consentito di scrivere liberamente, finché fosse rimasto in patria.
Accetta l'invito di Federico Il di Prussia e si trasferisce a Berlino.
Poi, pur conservando stima e affetto per quello che lui chiama il "Salomone del Nord", dopo quattro anni, lo lascia deluso: nei fatti, Federico, il principe illuminato, si è rivelato re cinico e spregiudicato.
Dal rifugio berlinese a quello ginevrino, per giungere finalmente all'agognato porto: il castello di Ferney, sul confine franco-svizzero, cioè in territorio francese, ma a debita distanza da Parigi e a due passi dal confine, per una eventuale fuga improvvisa.
Cirey rappresenta nella vita di Voltaire il periodo dell'intenso studio e, per così dire, della preparazione; Ginevra quello dell'iniziazione alla vita pubblica; Ferney il periodo della maturità e delle crociate, il periodo in cui trasse le conclusioni dalle sue varie esperienze e portò sul piano concreto le sue idee.
L'amore per il prossimo lo dimostrerà sia nei confronti di una discendente del grande Corneille, Marie, che scopre in miseria, accoglie in casa, e dà in sposa ad un ottimo partito, dopo averle procurato una ricca dote; sia nei confronti di M.me de Varicourt, figlia di un ufficiale suo vicino di casa andato in rovina, che sposa al ricchissimo marchese de Villette.
Questo suo amore per il prossimo lo dimostra ancor più quando, a sue spese, rende i sette o otto casolari, che circondano il castello di Ferney, una città di artigiani, opulenta, ricca di opifici, di orologiai che fanno concorrenza alla repubblica di Calvino.
Ma il periodo di Ferney è soprattutto epoca di battaglie.
Battaglia contro l'Infáme, cioè il fanatismo e la superstizione alimentate dalla Chiesa cattolica; battaglia contro il cristianesimo e la religione in genere, fonte di sanguinosi contrasti.
Voltaire pensa inorridito alla notte di S. Bartolomeo e lancia il suo grido di guerra "Ecrasez l'infáme" (schiacciate l'infame).
Si batte contro la genuflessione e vince; si batte contro un Capitolo di venti monaci di Saint-Claude, che tengono nelle condizioni di servi della gleba 1200 contadini, e riesce a ottenere da Luigi XVI, nel 1779, un editto di abolizione della servitù della gleba; si batte contro il parlamento di Tolosa che ha giudicato omicida e giustiziato Jean Calas, un mercante di stoffe protestante, accusato di aver ucciso il figlio Marc-Antoine, che la voce popolare affermava essere prossimo a convertirsi al cattolicesimo.
Voltaire si documenta e, convinto dell'innocenza di Jean Calas, orchestra una martellante campagna rivolta ai potenti, riesce a far esaminare il caso, dopo anni, e fa riabilitare la memoria dei povero mercante.
Si batte ancora contro il fanatismo religioso che accusa un'intera famiglia (padre, madre e due figlie), ugonotta, i Sirven, perché una delle figlie, Elisabeth, nuova convertita al cattolicesimo è trovata morta in un pozzo.
I giudici avevano condannato i Sirven (questa volta in effige, perchè i presunti colpevoli erano fuggiti in Svizzera).
Voltaire non accetta la condanna.
Si batte, come nel caso Calas, riesce, primo nella storia, a trasformare l'opinione pubblica in un nuovo e agguerrito strumento per il controllo sulla comunità civile.
La battaglia, in questo caso, è meno lunga e meno drammatica; ma, alla fine, il gladiatore vince: ottiene prima l'assoluzione e poi la riabilitazione dei Sirven.
I casi Calas e Sirven danno spunto a Voltaire per scrivere il citato "Traité sur la tolerance" e il successivo "Commentaire sur le livre des délits e des peines" ispirato al celebre omonimo libro di Cesare Beccaria.
Ambedue, inquadrabili nell'epico attacco all'Infame, sono colpi di maglio contro l'intolleranza, il fanatismo, la tortura, la pena di morte, in ultima analisi contro l'intero sistema della giustizia criminale francese.
Voltaire è instancabile.
Incalza l'Infáme con il famoso "Dictíonnaire philosophique".
Questa opera non è quello che s'intende oggi per dizionario e, men che meno, per dizionario di filosofia.
E', in realtà, una serie di brevi, talora brevissimi saggi, tutti godibilissimi, espressione di libero pensiero e di razionalismo.
A differenza dell'Enciclopedia, troppo grande, troppo ingombrante, troppo costosa, il Dizionario è agile, di facile lettura, di basso costo e rappresenta, perciò, un formidabile strumento, utilissimo a smontare l'impalcatura retta dalla superstizione, dal fanatismo, dalla irrazionalità.
Scrivendo in proposito a D'Alembert, il suo autore dice: "Venti volumi in folio non produrranno mai una rivoluzione; sono i piccoli libri tascabili che devono essere temuti.
Se il Vangelo fosse costato 1200 sesterzi, la religione non si sarebbe mai affermata."
L'ultimo colpo di ariete all'ancien régime Voltaire lo dà pubblicando la "Hístoire du Parlement de Paris", che contiene un'analisi storica delle origini e delle funzioni di questa istituzione, macchiata di sangue e di grottesco, e l'affermazione che è giunto il momento di riformarla.
E' il 1769.
Nove anni dopo, il 10 febbraio 1778, torna a Parigi per mettere in scena la sua ultima tragedia, "Irène".
La reazione della capitale è entusiastica.
Il popolo lo acclama chiamandolo ''L'homme aux Calas" e grida viva la "Henriade", viva "Mahornet".
Il giorno dopo il suo arrivo, riceve più di 300 persone.
Incontra, tra gli altri, Beniamino Franklin, che chiede per il nipotino la benedizione, concessa con le parole "Dio e libertà".
Poi la rappresentazione dell'Irène alla Comédie Française: un'apoteosi.
Infine, l'iniziazione massonica.
Voltaire si commuove, si esalta, ma si stanca, tanto da ammalarsi.
Il 30 maggio del 1778, muore.
La voce della ragione, la voce della libertà e del progresso tace per sempre.
Le spoglie mortali dell'alfiere dell'epoca dei lumi, il 1791, - in piena Rivoluzione francese - saranno portate in trionfo e troveranno definitiva dimora nel Panthéon. Voltaire, ampiamente, meritava questi onori: aveva schiuso, alla Francia e alla umanità intera, orizzonti nuovi, squarciate le tenebre dell'ignominia e della superstizione, proclamati e praticati gli ideali di libertà, eguaglianza, fraternità e tolleranza, da massone. A. C.
(tratto da "Hiram", n. 10 dicembre 1992 - pag. 60. Ed. Società Erasmo)
La redazione del Blog cogliere l'occasione di questo lieto evento per riproporre un interessantissimo articolo di A.C. e tratto da "Hiram", n. 10 dicembre 1992 - pag. 60. Ed. Società Erasmo. Esso è pure presente in moltissimi siti sul web.
Il 30 maggio 1778, alla vigilia della rivoluzione, Voltaire muore. La voce della ragione, della libertà e del progresso si spegne. Tredici anni più tardi, nel 1791, le sue spoglie mortali verranno deposte nel Pantheon.
Quella sera d'aprile, c'erano tutti, o quasi i più bei nomi dell'intellettualità di Francia facevano degna corona all'ottantaquattrenne "patriarca".
Nella Loggia "Les neuf soeurs" - forse la più brillante di tutti tempi - lo consacravano massone; lo iniziavano massone con una semplice e, al tempo stesso, solenne cerimonia che aveva il sapore, affettuosamente fraterno, d riconoscimento per una vita magistralmente dedicata a trionfo dei reali valori muratori.
Nel 1778, Voltaire, tornato nella sua Parigi, assaporava l'ebbrezza del trionfo che la città, e con essa la Francia, gli decretavano e si sentiva ripagato di 28 anni di esilio.
Sedendo tra i Fratelli, occupava, da uomo libero, il posto che da sempre era suo.
Libero lo era stato fin dall'adolescenza.
L'anelito alla libertà, ancora confuso, aveva fatto intruppare il diciassettenne Francois-Marie Arouet (questo il vero nome di Voltaire), allievo dei Gesuiti, nei liberi pensatori della "Societé du Temple".
Un innato senso di ribellione alle imposizioni lo aveva spinto a scontrarsi con il padre, paludato "Grand Commis", che, scandalizzato dalla condotta del ragazzo, tentò, senza riuscirvi, di farne un uomo di legge.
Francois, puledro di razza, scalpitava, non tollerava ordini e, applicandosi intensamente da grande autodidatta agli studi preferiti, quelli letterari, si accingeva a lanciarsi nei cieli della poesia e negli spazi infiniti della libertà.
Il mondo, al quale si affacciava, era la incipriata settecentesca Francia dell'assolutismo e del dispotismo monarchico, dei privilegi feudali, del dominio oscurantista della Chiesa, delle decime, della venalità delle cariche, del caos delle istituzioni separate che soffocavano il regno della legge, vale a dire quell'ancien règime, in cui trionfavano fanatismo religioso, pregiudizi, superstizione e ingiustizia, e che l'impetuoso vento del 1789 spazzerà via.
Il giovane Arouet prova a stuzzicare l'apice di questa costruzione.
Gli strali della sua pungente satira, che diverrà una delle sue armi migliori, colpiscono il Duca d'Orléans, reggente il trono di Francia, e i suoi amori incestuosi.
E' la prigione.
Un anno alla Bastiglia, che varrà a far schiudere la crisalide Arouet e a far volare la farfalla Voltaire.
Il nuovo nome, che consacrerà alla storia Francois-Marie Arouet, è causa di litigio con il Cavaliere di Rohan, rampollo di una delle più superbe famiglie nobili del regno.
Voltaire verrà bastonato dai lacchè del Cavaliere e rinchiuso, ancora una volta, in prigione.
Uscirà accettando l'esilio: in Inghilterra.
E' il 1776.
Voltaire ha trentadue anni e ha già assaporato il trionfo alla Comédie Française con la tragedia "Oedipe".
Per la terza volta abbandona Parigi.
Lo farà altre volte, per sfuggire alla persecuzione.
Il soggiorno nelle isole britanniche - un paio d'anni - può essere considerato decisivo per la formazione di Voltaire "philosophe" (nel senso settecentesco del termine), uomo e politico.
Come tale, da quel momento, appartenne a coloro che si sentivano di guidare il progresso dei popoli con il lume della ragione. Più in là negli anni, divenne il simbolo vivente dell'età dei lumi.
Enciclopedico, padrone dello scibile del XVIII secolo, si rifiutava però di costringere il suo pensiero in un articolato e compiuto sistema filosofico: "La sistematica - diceva - offende la ragione".
E nessuno fu più efficace di Voltaire nell'usare la ragione, un'arma, quando era lui a brandirla, affilata spesso dalla sua risata, senza che, come scrive Russel, sostituisse un dogma a un altro.
In Inghilterra, Voltaire, a contatto con una società trasformata dalla "rivoluzione silenziosa" del secolo precedente, arricchisce mente e spirito e compone le "Lettres philosophiques".
Queste, giustamente definite "la prima bomba scagliata contro l'ancien règime, possono considerarsi il manifesto degli ideali volterriani di tolleranza, di eguaglianza, di libertà. Tolleranza è per lui convivenza pacifica di uomini dalle opinioni e credenze diverse; eguaglianza è per lui pari opportunità per tutti di raggiungere - sotto l'usbergo delle leggi - mète elevate, in virtù della capacità e non dell'estrazione sociale; libertà è per lui possibilità offerta a ognuno di esprimere senza timori - opinioni politiche e religiose.
Voltaire avrà occasione di esporre, in modo più o meno palese, queste idee e altre, su Dio, sulla metafisica, sugli ordinamenti politici, nella sua immensa produzione (15 milioni di parole scritte).
Anche le sue composizioni poetiche, epiche, le sue tragedie contengono quello che diremmo oggi un messaggio.
Il poema epico "Henriade", ad esempio, esalta Enrico IV quale unico Re francese che abbia dimostrato un'illuminata tolleranza religiosa; le tragedie "Zaire" e "L'orphelin de la Chine" hanno come tema di fondo la resistenza alla tirannide e l'affermazione della libertà.
Alla tolleranza dedicherà un trattato.
"Che cosa è la tolleranza?" si domanda.
E risponde: "E' il retaggio dell'umanità.
Noi siamo tutti impastati di debolezze e di errori; perdoniamoci reciprocamente le nostre corbellerie: è la prima legge di natura."
In un altro libro, "Traité de métaphisique", si propone principalmente di dare risposta a due quesiti: "C'è un Dio? E, se c'è, quali sono i suoi rapporti con l'uomo?"
Anche se Voltaire rifiutava d'inoltrarsi nel labirinto delle discussioni sulla causa causarum, sul determinismo, sul libero arbitrio, ecc., e l'uso scintillante del ragionamento lo spingeva all'agnosticismo, tuttavia non si stancava di combattere l'ateismo e di proclamarsi deista.
Deista, non perché credesse in una specie di rapporto o interazione continuativa o finalizzata tra l'uomo e una qualsiasi divinità, ma perché riteneva l'essere umano finito e, in quanto tale, prodotto da una causa prima che lo trascendeva, causa che per comodità poteva chiamarsi Dio.
Il deismo volterriano era in perfetta sintonia con gli antichi doveri codificati dal Fratello Anderson nelle costituzioni massoniche del 1723.
Ma c'è di più.
L'amore di Voltaire per l'umanità, il suo concetto di fratellanza, si manifesta, in modo tormentato, dopo il terremoto che, nel giorno di Ognissanti del 1755, distrusse la città di Lisbona e provocò migliaia di vittime.
Quando neviene informato, Voltaire ha una reazione di orrore.
Colpito profondamente, affila la penna e crea, in poco tempo, il "Poème sur le désastre de Lisbonne".
"Centomila formiche, il nostro prossimo, uccise d'un sol colpo nel nostro formicaio e metà di loro che periscono senza dubbio in inesprimibili angosce", scrive.
Il poeta è ossessionato dall'idea che il mondo è pazzo; pazze le guerre, che gli uomini, abitanti una tana a forma di palla, si fanno e, con la loro condotta, si procurano più male di quanto ne facciano le catastrofi naturali; pazzi coloro che ritengono questo il migliore dei mondi possibili.
Per dimostrare questo assunto, crea il celeberrimo "Candide", il suo capolavoro satirico, autentico best-seller, ancora pubblicato, ancora letto e apprezzato.
Per combattere le sue battaglie contro un mondo che gli è ostile, Voltaire aveva bisogno di sicurezza economica e di un rifugio.
La prima se la procura al ritorno dall'Inghilterra.
Il sangue degli "affaristi" Arouet, da lui disconosciuto (l'aver mutato il nome ha molto probabilmente questo significato), si risveglia: in modo lecito, specula in obbligazioni della municipalità parigina e lorenese e sul mercato del grano. In un anno diventa ricco.
Per non incappare nel mandato di cattura spiccato nei suoi confronti, dopo l'introduzione in Francia delle "Lettere filosofiche" pubblicate per la prima volta in Inghilterra, il rifugio lo trova nel castello di Cirey che per sedici anni diverrà nido d'amore, laboratorio d'idee, base d'operazioni.
La proprietaria, marchesa di Chatelet, diviene per Voltaire, in quel periodo tutto dedicato allo studio e alla produzione, ("Siècle de Louis XIV", "Elements de Newton", "Mahomet", "Mèrope", "Sémiramis", "Pandore", "La prude", "Zadig", "Essai sur le moeurs", e altri), amante, amica, compagna nelle ricerche e negli studi scientifici, e poi - come confessa il filosofo, addolorato dopo la morte della sua amica -più di un padre, più di un fratello, più di un figlio.
Cirey lo metteva al riparo da brutte sorprese, perché località non agevolmente accessibile (due o tre giorni di viaggio da Parigi, che diventavano cinque o sei nella brutta stagione) e molto vicina, non si sa mai, alla frontiera.
Non sempre Voltaire riusciva a non mettersi nei pasticci.
E' vero che gli si deve senz'altro attribuire una particolare genialità e capacità di far circolare, in un ambiente ufficiale ostile, le sue opere e le idee in esse contenute.
Nessuno infatti mai utilizzò con maggiore abilità la dissimulazione.
Pubblicò libri anonimamente; sconfessò opere che portavano il marchio del suo ingegno; attribuì le sue produzioni più audaci ad autori che si trovavano al sicuro all'estero o che, ancora più al sicuro, erano morti; usò editori che falsificavano le pagine del titolo e del luogo di stampa; cambiò le date dei suoi scritti per confondere i censori; fece stampare i suoi libri all'estero per poi introdurli clandestinamente in Francia.
Queste sono le sue strategie più note. Meno note e più ingegnose le strategie che usava nei suoi scritti; come un buon giocatore di poker, usava un'ampia gamma di bluff.
A volte, diceva più di quello che intendeva dire.
Altre volte, diceva meno di quello che intendeva dire; diluiva le opinioni più pericolose con altre, più innocue, che non condivideva.
Altre volte ancora diceva esattamente ciò che intendeva dire, ma negava ogni responsabilità per quanto aveva detto e attribuiva la sua opinione a un eretico o a un pagano.
A volte, diceva esattamente ciò che intendeva dire, ma dichiarava di deplorare le sue stesse opinioni.
Ciononostante, temendo per la sua persona, cercava di mettere quanta più distanza poteva tra sé e i suoi persecutori.
Come fece dopo la pubblicazione dell'iconoclastico poemetto "Le mondain" (descrisse Adamo ed Eva che si nutrono di miglio e ghiande), recandosi ad Amsterdam.
Ma Cirey non sarà il suo ultimo rifugio.
Più e più volte esiliato, incarcerato, minacciato di arresto, bastonato, perseguitato, spiato, costretto a vedere regolarmente proibire, sequestrare e ardere sul rogo le proprie opere, nel 1749 si convince che né la straordinaria fama ormai acquisita, né la protezione di amici influenti, né il remoto ritiro di Cirey, né la ricchezza crescente gli avrebbero consentito di scrivere liberamente, finché fosse rimasto in patria.
Accetta l'invito di Federico Il di Prussia e si trasferisce a Berlino.
Poi, pur conservando stima e affetto per quello che lui chiama il "Salomone del Nord", dopo quattro anni, lo lascia deluso: nei fatti, Federico, il principe illuminato, si è rivelato re cinico e spregiudicato.
Dal rifugio berlinese a quello ginevrino, per giungere finalmente all'agognato porto: il castello di Ferney, sul confine franco-svizzero, cioè in territorio francese, ma a debita distanza da Parigi e a due passi dal confine, per una eventuale fuga improvvisa.
Cirey rappresenta nella vita di Voltaire il periodo dell'intenso studio e, per così dire, della preparazione; Ginevra quello dell'iniziazione alla vita pubblica; Ferney il periodo della maturità e delle crociate, il periodo in cui trasse le conclusioni dalle sue varie esperienze e portò sul piano concreto le sue idee.
L'amore per il prossimo lo dimostrerà sia nei confronti di una discendente del grande Corneille, Marie, che scopre in miseria, accoglie in casa, e dà in sposa ad un ottimo partito, dopo averle procurato una ricca dote; sia nei confronti di M.me de Varicourt, figlia di un ufficiale suo vicino di casa andato in rovina, che sposa al ricchissimo marchese de Villette.
Questo suo amore per il prossimo lo dimostra ancor più quando, a sue spese, rende i sette o otto casolari, che circondano il castello di Ferney, una città di artigiani, opulenta, ricca di opifici, di orologiai che fanno concorrenza alla repubblica di Calvino.
Ma il periodo di Ferney è soprattutto epoca di battaglie.
Battaglia contro l'Infáme, cioè il fanatismo e la superstizione alimentate dalla Chiesa cattolica; battaglia contro il cristianesimo e la religione in genere, fonte di sanguinosi contrasti.
Voltaire pensa inorridito alla notte di S. Bartolomeo e lancia il suo grido di guerra "Ecrasez l'infáme" (schiacciate l'infame).
Si batte contro la genuflessione e vince; si batte contro un Capitolo di venti monaci di Saint-Claude, che tengono nelle condizioni di servi della gleba 1200 contadini, e riesce a ottenere da Luigi XVI, nel 1779, un editto di abolizione della servitù della gleba; si batte contro il parlamento di Tolosa che ha giudicato omicida e giustiziato Jean Calas, un mercante di stoffe protestante, accusato di aver ucciso il figlio Marc-Antoine, che la voce popolare affermava essere prossimo a convertirsi al cattolicesimo.
Voltaire si documenta e, convinto dell'innocenza di Jean Calas, orchestra una martellante campagna rivolta ai potenti, riesce a far esaminare il caso, dopo anni, e fa riabilitare la memoria dei povero mercante.
Si batte ancora contro il fanatismo religioso che accusa un'intera famiglia (padre, madre e due figlie), ugonotta, i Sirven, perché una delle figlie, Elisabeth, nuova convertita al cattolicesimo è trovata morta in un pozzo.
I giudici avevano condannato i Sirven (questa volta in effige, perchè i presunti colpevoli erano fuggiti in Svizzera).
Voltaire non accetta la condanna.
Si batte, come nel caso Calas, riesce, primo nella storia, a trasformare l'opinione pubblica in un nuovo e agguerrito strumento per il controllo sulla comunità civile.
La battaglia, in questo caso, è meno lunga e meno drammatica; ma, alla fine, il gladiatore vince: ottiene prima l'assoluzione e poi la riabilitazione dei Sirven.
I casi Calas e Sirven danno spunto a Voltaire per scrivere il citato "Traité sur la tolerance" e il successivo "Commentaire sur le livre des délits e des peines" ispirato al celebre omonimo libro di Cesare Beccaria.
Ambedue, inquadrabili nell'epico attacco all'Infame, sono colpi di maglio contro l'intolleranza, il fanatismo, la tortura, la pena di morte, in ultima analisi contro l'intero sistema della giustizia criminale francese.
Voltaire è instancabile.
Incalza l'Infáme con il famoso "Dictíonnaire philosophique".
Questa opera non è quello che s'intende oggi per dizionario e, men che meno, per dizionario di filosofia.
E', in realtà, una serie di brevi, talora brevissimi saggi, tutti godibilissimi, espressione di libero pensiero e di razionalismo.
A differenza dell'Enciclopedia, troppo grande, troppo ingombrante, troppo costosa, il Dizionario è agile, di facile lettura, di basso costo e rappresenta, perciò, un formidabile strumento, utilissimo a smontare l'impalcatura retta dalla superstizione, dal fanatismo, dalla irrazionalità.
Scrivendo in proposito a D'Alembert, il suo autore dice: "Venti volumi in folio non produrranno mai una rivoluzione; sono i piccoli libri tascabili che devono essere temuti.
Se il Vangelo fosse costato 1200 sesterzi, la religione non si sarebbe mai affermata."
L'ultimo colpo di ariete all'ancien régime Voltaire lo dà pubblicando la "Hístoire du Parlement de Paris", che contiene un'analisi storica delle origini e delle funzioni di questa istituzione, macchiata di sangue e di grottesco, e l'affermazione che è giunto il momento di riformarla.
E' il 1769.
Nove anni dopo, il 10 febbraio 1778, torna a Parigi per mettere in scena la sua ultima tragedia, "Irène".
La reazione della capitale è entusiastica.
Il popolo lo acclama chiamandolo ''L'homme aux Calas" e grida viva la "Henriade", viva "Mahornet".
Il giorno dopo il suo arrivo, riceve più di 300 persone.
Incontra, tra gli altri, Beniamino Franklin, che chiede per il nipotino la benedizione, concessa con le parole "Dio e libertà".
Poi la rappresentazione dell'Irène alla Comédie Française: un'apoteosi.
Infine, l'iniziazione massonica.
Voltaire si commuove, si esalta, ma si stanca, tanto da ammalarsi.
Il 30 maggio del 1778, muore.
La voce della ragione, la voce della libertà e del progresso tace per sempre.
Le spoglie mortali dell'alfiere dell'epoca dei lumi, il 1791, - in piena Rivoluzione francese - saranno portate in trionfo e troveranno definitiva dimora nel Panthéon. Voltaire, ampiamente, meritava questi onori: aveva schiuso, alla Francia e alla umanità intera, orizzonti nuovi, squarciate le tenebre dell'ignominia e della superstizione, proclamati e praticati gli ideali di libertà, eguaglianza, fraternità e tolleranza, da massone. A. C.
(tratto da "Hiram", n. 10 dicembre 1992 - pag. 60. Ed. Società Erasmo)