di Luca Delli Santi
«Siamo qualcosa che non resta. Frasi vuote nella testa e il cuore di simboli è pieno»
Francesco Guccini
I simboli sono l’oggetto del nostro lavoro, ciò con cui il libero muratore si confronta sin dalla prima volta che, tolta la benda, si trova nel centro del tempio ed ha la possibilità di osservare ciò che lo circonda. Etimologicamente uno dei significati di questa parola è mettere insieme, legare due parti distinte.
Le lettere dell’alfabeto ebraico sono simboli, la loro funzione è mettere in connessione, creare legami. Costituiscono, insieme alle dieci sephirot, i trentadue sentieri della Sapienza, visivamente, nella rappresentazione dell’Albero della Vita, sono poste in relazione alle linee che uniscono fra loro le dieci sephirot, sono ponti che consentono di colmare le distanze. L’Albero della Vita è la scala di Giacobbe, una road map, che la sapienza cabalistica ha costruito in secoli di ricerca, di studio e soprattutto di intuizioni derivanti dalla pratica, il cui scopo è donare all’essere umano uno strumento per recuperare la condizione adamitica, lo stato in cui la consapevolezza umana e quella divina erano congiunte, non è la perfetta unità, è quanto vi è più prossimo.
La capacità di vocalizzare le lettere è l’elemento che ci rende realmente ad “immagine e somiglianza”, l’essere umano è dotato di pensiero, tradurre il pensiero in parola è un atto semplice, banale, che compiamo, quasi inconsapevolmente, ogni giorno, ebbene questo è un riflesso del processo alla base della creazione del cosmo.
Nel modo fantastico creato dallo scrittore inglese J.R.R. Tolkien la cosmogonia descritta nel Silmarillion è molto suggestiva, l’universo viene creato dagli Ainur, esseri emanati dall’uno Eru Illuvatar, grazie al canto melodioso che dà forma al cosmo determinandone l’ordine, l’origine del male sarà proprio rintracciabile nella nota disarmonica cantata da una degli Ainur, che poi dara origine alle forze antagoniste nell’epica dell’autore.
Una delle possibili permutazioni di Bereshit è proprio: “ Desiderò la canzone”, il cantare è l’utilizzo della parola in forma melodiosa ed armonica, lo Shir ha Shirim, il Cantico dei Cantici è un teso che tratta d’amore, della ricerca della Shekina’, il divino celato nell’immanente, è il simbolo che viene scelto dal mitico autore del testo, il re Salomone, per elevare la parola alle sue massime potenzialità.
Riscoprire il divino che è nell’umano è la capacità di ritrovare le vibrazioni dell’aleph beit, questo è il senso delle “parole di potere “della cabala, la parola è lo strumento che consente di rievocare ciò che è stato perduto ma che latente è ancora in noi.
Il Sepher Yetzirah, descrive e dettaglia quanto viene affermato in Giovanni in apertura del suo Vangelo: “ In principio era il Verbo. Il Verbo era presso Dio. Il Verbo era Dio.” Il Libro della Formazione fa “regnare” ogni lettera su un particolare ambito della creazione e la associa ad altri, tutto il cosmo viene ricondotto alla vibrazione di una lettera dell’aleph beit. Il Verbo dà forma al creato attraverso un complesso processo di articolazione delle lettere.
Ariyeh Kaplan ci propone una visione affascinante, il libro della Formazione non sarebbe un’interpretazione della narrazione del libro della Genesi, o almeno non solo questo, sotto queste vesti si celerebbe un testo di cabala pratica, una massà merkavà, un’opera del carro volta a raggiungere stati dell’essere superiore.
Il respiro è una componente fondamentale della cabala pratica, le tre parole che indicano i gradini dell’anima, nephesh, ruach e neshamà, hanno tutte un significato letterale che richiama il respiro. Si tratta dello strumento con il quale possiamo possedere la vibrazione che consente di usare la parola. La conoscenza della Parola Sacra consiste nel saperne articolare il suono (l’armonia, il canto ) attraverso il dominio del ritmo del respiro.
Si tratta di una peculiarità della cabala rispetto ad altre discipline sapienziali, la parola è il cuore dell’operatività, l’Alef Beit è il mezzo grazie al quale possiamo risalire l’Albero della Vita, riconquistando il Paradiso Perduto che, come ci suggeriva John Milton, può essere ritrovato solo “dentro di sé”.
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