«Ciò che ci rende capaci di indagare Physis, e penetrando in essa indagare noi stessi, sembra qualcosa di troppo 'singolare' per poter essere spiegato sulla base dello 'spirito' che tutto pervade, a tutti comune. I princìpi stessi che questa facoltà giunge a intuire, la loro universalità e necessità, non sembrano fare segno all’immortalità dell’agente che ne dispone? Potrebbe un fattore soltanto sensibile, quella sola dimensione della 'psyché' che avvertiamo coi sensi, essere il fondamento del nostro 'theoreîn'? Eppure anche tale 'psyché' sembra si debba concepire come immortale; nulla vivrebbe, infatti, se venisse meno. Ma i corpi che fa vivere sono mortali. Tuttavia questi corpi finiti pensano l’infinito, contemplano idee immortali. Dunque, in loro l’universale 'psyché' si dà in una forma che attiene all’immortale. Questa forma è ciò che rende possibile il pensare, la sua condizione o presupposto: 'noûs'. 'Noûs' chiamiamo la forma in cui l’onnipotente 'psyché' si caratterizza nell’esserci dell’uomo e sembra renderne l’anima immortale. Ma tutta? Anche quelle parti o funzioni che sono in noi affatto simili a quelle di altri animali? O immortale è il 'noûs' soltanto? È esso il nostro proprio 'respirare' (dalla radice ‹an›- di anima e vento si formano in sanscrito le voci indicanti il respirare. Assumere la sostanza che ci dà vita è inizio del conoscere, origine immanente in ogni suo atto: ciò appare chiarissimo nella prossimità tra ‹gígnomai›, ‹gigno› ‹gignósko›)».
Massimo Cacciari, Labirinto filosofico, Adelphi, Milano 2014 (prima edizione), 6. ‘In ascolto del Logos’, 6.2 De anima, p. 178.