di Ventamore
Se si considera l’individuo umano che in atto si situa nella «stasi umana», come dice Matgioi, specie nella modalità corporea e nelle vieppiù ristrette condizioni corrispondenti all’attualità ciclica (1), può dirsi che tale individuo, relativamente allo stato che gli corrisponde in virtù del suo grado d’«identità» (2), porta in se stesso una certa possibilità, foss’anche limitata, di operare, per mezzo della facoltà raziocinante, una «scelta» in merito a determinate «tendenze» verso cui dirigere il complesso delle sue azioni (modificazioni dell’essere); «tendenze» che non possono sfuggire all’insieme di quanto costituisce il «mondo» corrispondente al suo proprio grado di realtà.
Tale individuale possibilità di «libera scelta» non può dunque superare il ristretto dominio che costituisce l’ambito dell’esaurimento «necessario» delle possibilità di sviluppo che, come e in quanto tale, l’individuo porta in se stesso.
Ed è tale possibilità che la filosofia e la teologia definiscono come «libero arbitrio», intorno al quale si è detto indefinitamente, e che, infine, il senso proprio si risolve nel fatto che l’individuo umano ha, sul piano della propria esistenza e conformemente alla natura che lo contraddistingue, una relativa libera facoltà di agire secondo la propria volontà, o secondo la predominante tendenza che più qualifica la volontà stessa.
Tuttavia, assai lontana quando non totalmente avulsa dai princìpi, la filosofia (soprattutto quella moderna) e il punto di vista teologico che vi si affianca, non possono prendere in esame se non gli aspetti esteriori e meno profondi del soggetto in questione, limitandosi più alla generale considerazione degli effetti che non delle cause; peraltro, oltre al fatto di non sfuggire ai limiti del divenire, in quanto ad esso si riferiscono, tali prospettive considerano una sorta di «livellamento» delle facoltà umane, e suppongono che tutti gli esseri umani, d’ogni tempo e di ogni latitudine, siano forniti delle stesse identiche facoltà, sviluppate in egual misura.
1) – In generale, la natura propria di un individuo umano, sia per quanto riguarda gli aspetti qualitativi che «quantitativi», non può se non rispecchiare le condizioni della particolare fase ciclica in cui si manifesta, vale a dire in cui ha potuto trovare la possibile «porta» cosmica della sua manifestazione; «porta» qualificata da peculiari caratteristiche (corrispondenti alla natura della razza, dell’etnia, nonché dell’insieme di quanto più qualifica la famiglia e il particolare ambiente), «situata» in un tempo e in un luogo, e che si è aperta in virtù dell’attuale e causale «identità» dell’essere individuale, il quale è soggetto, pertanto, all’esaurimento o all’«attualizzazione» di determinate possibilità suscettibili di manifestarsi in determinate modalità, quali quelle del nostro mondo.
È perciò evidente che, per esempio, le attuali condizioni cicliche non sono affatto né quelle dell’inizio dello stesso kali-yuga, né tantomeno quelle delle età o yuga precedenti, per non parlare del krita-yuga, il primo del presente Manvantara, dove lo sviluppo spirituale si realizzava armonicamente e unitamente a quello sottile e corporeo, e, va da sé, non era affatto necessario alcun ricollegamento iniziatico.
2) – Metafisicamente, un essere non può essere altro che sé stesso, cioè identico alla sua stessa propria effettiva identità con lo stato, la modalità e le condizioni che costituiscono la sua possibile realtà nell’insieme della Possibilità universale.
Insomma, la speculazione «filosofica» riguardante ciò che si è convenuto definire come «libero arbitrio» non si rivolge che ad un particolare ambito delle possibilità umane, ovvero di quanto, promanato dal mentale, più o meno superficialmente si manifesta all’«esterno» come essere la risultante di un reale esame elaborato dalla facoltà di discriminazione.
Cosicché, da tale prospettiva, l’individuo umano, considerato come essere «separato» dal suo principio trascendente (il suo proprio «Sé»), ovvero dall’intuizione intellettuale o spirituale (principio in cui risiede tutta l’effettiva realtà dell’essere), viene per così dire impropriamente «investito» di una «responsabilità totale»; responsabilità legata al suo «libero arbitrio» e, pertanto, alla sua limitata volitiva libertà.
Per dirlo in modo diverso, l’individuo in quanto tale, sarebbe o dovrebbe esser capace, tramite e in forza della sua stessa relativa volontà, di «trasmutare» in qualche modo se stesso, ovvero di operare quel «raddrizzamento» del proprio essere al fine di «acquisire» un più ampio orizzonte intellettuale, tale da aprirlo e condurlo a superiori domìni spirituali; ciò significherebbe ritenere che una cosa «prima» non è, e «dopo» invece è; un presupposto, tutto razionale quanto assai lontano dai princìpi, il quale induce a ritenere che un essere «è» ciò che non «era», e «sarà» ciò che non è mai stato.
Tale punto di vista non si risolve, in definitiva, che in un «determinismo» fuori luogo riguardo alla realtà metafisica; mentre da una parte si considera l’individuo come esser privo della sua ragion sufficiente, dall’altra si pretende che lo stesso abbia la facoltà di mutare se stesso.
Non è forse su tale singolare prospettiva che poggia il postulato «evoluzionistico», nonché quello del «progresso»?
Ma, grazie all’incontrovertibile Realtà dell’Ordine supremo che governa e vivifica l’Universo, le cose stanno ben diversamente: una cosa che non è, non è mai stata né mai sarà; una cosa che è, è sempre stata e sempre sarà, nell’eterno presente della Suprema Verità.
Gli Occidentali non si son dati pace nell’ossessionare i poveri cervelli, «pestando l’acqua nel mortaio», con interminabili «argomentazioni» sulla «realtà» del «pelo nell’uovo»; e si sono prodotti in più che penose «ricerche», inconcludenti quanto fini a se stesse. Ma c’è di peggio. Ed è che tali «grandissimi pensatori», maestri (pure sospetti) della dialettica si sono perfino reso lecito voler «insegnare» (ed imporre) a tutti le loro fantastiche congetture su una mal definita e incerta «divinità», ritenuta tanto lontana quanto inaccostabile e perfino nemica degli esseri (che solo da Essa promanano e ad Essa ritornano). Basterà al riguardo citare che il pur notevole Leibnitz venne colto dall’«umile» pensiero... di dover nientemeno «spiegare» l’I King ai saggi Vegliardi del Celeste Impero!
Non a caso manifestati nelle latitudini del «sole calante», gli Occidentali (e non soltanto) non riescono, se non in rarissime eccezioni, a liberarsi dall’azione; azione posta in essere col pensiero (pur se qui si tratta più propriamente di una attività, compresa l’individuale volontà) nel dominio psichico e con l’agire nel dominio corporeo.
È appena l’occasione notare quanto sia indicativo il fatto che generalmente nessuno chiede a cosa si deve adempiere; tutti chiedono, piuttosto, cosa si deve fare...
Ma l’azione in quanto tale non può liberare dall’azione stessa. E ciò ci conduce a considerazioni di un altro ordine.
La parola a René Guénon: «Essendo l’azione null’altro che una modificazione transitoria e momentanea dell’essere, essa non può trovare in se stessa il suo principio e la sua ragion d’essere; se essa non si ricollega ad un principio posto al di là del suo ambito contingente, non è che una pura illusione; e questo principio dal quale trae tutta la realtà di cui è suscettibile, nonché la sua esistenza e la sua stessa possibilità, non può trovarsi che nella contemplazione o, se si preferisce, nella conoscenza». (3)
Per esprimere, se possibile, più esaurientemente intorno alla natura individuale degli esseri manifestati, ricorreremo ancora a quanto esposto da R. Guénon riguardo alla teoria indù dei tre guna.
Traiamo quindi interamente dalla sua opera quanto appresso, sintetizzando i princìpi e i relativi domìni dai quali procedono le tre tendenze cui inevitabilmente sono soggette le nature proprie degli esseri nella manifestazione universale.
Dall’Essere (Îshwara – Al-Lâhût, la «Natura divina creatrice»), procede Âtmâ (Intelletto primo, Ar-Rûh al-Qudus), da cui procede Agni e quindi Buddhi o Mahat, (il «Mondo dell’Onnipotenza» – Âlam Al-Jabbarût), concepito come tre «divinità» (attributi e funzioni), identificate dai nomi divini Brahmâ (da non confondere con Brahma, il Principio Supremo), Shiva e Vishnu, che costituiscono la Trimûrti.
Tutti gli esseri che sottostanno al dominio della Trimûrti sono soggetti all’influenza dei tre guna, i quali non sono che le condizioni dell’esistenza universale.
«I guna – dice Guénon – non sono perciò degli stati, ma condizioni dell’esistenza universale alle quali sono soggetti tutti gli esseri manifestati, e che bisogna aver cura di distinguere dalle condizioni speciali che determinano questo o quello stato, o modo, della manifestazione, quali lo spazio e il tempo, che condizionano lo stato corporeo ad esclusione di tutti gli altri.
I tre guna sono: Sattwa, la conformità all’essenza pura dell’Essere o Sat, che viene fatta identica alla luce intelligibile o alla conoscenza e rappresentata quale una tendenza ascendente; Rajas, l’impulso espansivo, secondo il quale l’essere si sviluppa in un certo stato e, per così dire, a un determinato livello d’esistenza; infine, Tamas, l’oscurità, fatta identica all’ignoranza e rappresentata quale una tendenza discendente». (4)
3) – Studi sull’induismo, Cap. II.
4) – Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Parte III, Cap. 11.
Tali tendenze, Sattwa verso l’alto, Rajas quale espansione orizzontale e Tamas verso il basso, qualificano propriamente la natura degli esseri, a seconda della predominanza di una delle tendenze rispetto alle altre due; ciò in quanto una tendenza non si esprime nella sua interezza, ma in misura della proporzione che più predomina nelle indefinite possibilità di «colorazione». Si potrà dire dunque che un essere sia più o meno satwico, rajasico o tamasico. (5)
«In un testo del Vêda, i tre guna sono presentati come si trasformassero l’uno nell’altro, secondo un ordine ascendente: “Tutto era tamas (all’origine della manifestazione, emergente dall’indifferenziazione primordiale di Prakriti): Egli (cioè il supremo Brahma) ordinò un mutamento [identico al Fiat Lux], e tamas prese il colore (cioè la natura) [corrispondente a varna] di rajas (intermedio tra l’oscurità e la luminosità); e rajas, ricevuto un nuovo ordine, rivestì la natura di sattwa”.
Se esaminiamo la croce a tre dimensioni avente come origine il centro di una sfera, la conversione di tamas può essere rappresentata dalla descrizione della metà inferiore di questa sfera, da un polo all’equatore, e quella di rajas in sattwa dalla descrizione della stessa sfera, dall’equatore all’altro polo. Il piano dell’equatore, supposto orizzontale, raffigura quindi, come abbiamo detto, il campo di espansione di rajas, mentre tamas e sattwa tendono rispettivamente verso i due poli. Infine, il punto da cui viene ordinata la trasmutazione di tamas in rajas, e poi quella di rajas in sattwa, è il centro stesso della sfera. [...] I tre guna sono rappresentati con dei colori simbolici: tamas dal nero; rajas dal rosso e sattwa dal bianco». (6) Da tanto, si potrebbe dunque concludere: se un essere umano, incline (e identico) alla tendenza della sua propria intima natura, permane nel limitato dominio individuale e si lega passivamente alla «necessità» (o al Destino), dove sarebbe il suo «libero arbitrio»?
Se, per inverso, conformemente e in virtù della sua innata, profonda, natura «celeste» (e quale realmente «chiamato»), un essere umano si sottomette coscientemente e completamente alla Provvidenza o alla «Volontà del Cielo», in quale «campo» esplicherebbe, pertanto, il suo individuale «libero arbitrio».
5) – Riferendosi all’esatta corrispondenza di tali tendenze con quelle che rilevano dalla dottrina islamica, Guénon diceva: «Secondo queste tre categorie [corrispondenti a coloro su cui è la grazia, coloro su cui è la collera e coloro che sono nell’errore], gli esseri potrebbero venir definiti rispettivamente come gli «eletti», i «reietti» e gli «sviati»; si che esse corrispondono esattamente ai tre guna: la prima a sattwa, la seconda a tamas e la terza a rajas». Il simbolismo della croce, Cap. XXV.
6) – R.Guénon, Il simbolismo della croce, Cap. V.
Al lumeggiamento di tali domande non si può fare a meno di veder quantomeno vacillare l’imponente impalcatura di un «pensiero» (7) che, lontano dalla metafisica, rimane impotente ad assurgere ai princìpi ed apportare una vera chiarificazione intellettuale.
Lo sappia o meno, lo «voglia» o meno, l’uomo, così come tutti gli «altri» esseri dell’Universo, non è che un servo del suo Signore: «Non si muove foglia che Iddio non voglia».
«Quando Iddio vuole una cosa, il Suo ordine consiste nel dire “Sii!” [Kun!] ed essa è». (8)
«Non potete servire a Dio e a Mammona», dice il Cristo. (9)
In fondo, nel suo seguire il Piano (già perfettamente tracciato dal Volere supremo), l’uomo non può dirsi «libero», nell’accezione comune del termine e in quanto egli, nell’oblio di se stesso, crede d’esser «diviso» dal suo principio.
Tuttavia è libero, in quanto tale pur relativa libertà corrisponde esattamente alla possibilità di libertà intimamente connessa al grado in cui realmente si «situa», per la sua stessa «identità», nella «marcia d’avvicinamento» verso il centro della propria coscienza (simboleggiato dal cuore, «sede» dell’intelletto e della vera intuizione), identico al Centro del suo mondo, il quale non può essere che identico all’Essere e, infine, al Principio supremo.
Da tale punto di vista, quella «responsabilità totale», immaginata dagli amanti del Rigore (a cui inevitabilmente soggiacciono e da cui non sfuggono), si risolve in una impossibilità. D’altra parte, sarebbe del tutto inesatto negare una certa quanto relativa responsabilità dell’individuo; essa trova attuazione all’interno dell’ampiezza del dominio corrispondente al grado effettivo dell’essere e, pertanto, non può estendersi oltre il piano in cui si trova in atto.
In tutti i suoi stati molteplici, la libertà (e la conseguente volontà, così come la predisposizione) di un essere, quale che sia la sua «ampiezza», non discende che dalla suprema Libertà della Possibilità universale. Se è permesso un tal modo d’esprimerci, il Principio Supremo la «elargisce» con la Sua trascendente Misericordia, e la espande con la Sua Compassione nella Sua immanenza.
7) – Intendiamo un «pensiero speculativo» o «teorico», incapace di spiegare le ragioni profonde delle differentissime qualificazioni degli esseri in generale e umani in particolare. Di fatto, l’Occidente è rimasto lontano dalle dottrine tradizionali complete che si ricollegano più direttamente alla Tradizione primordiale, quale quella indù, la quale fornisce tutti i possibili «mezzi» per una reale e niente affatto farraginosa discriminazione intorno alle possibilità che un essere porta in se stesso e di cui inevitabilmente manifesta i segni della propria natura; basterà al riguardo ricordare la teoria dei tre guna, di cui abbiamo accennato. Aggiungeremo qui la semplice notazione che in tutta la sua esposizione dottrinale, René Guénon non soltanto non ha ritenuto dare alcun credito alla questione del «libero arbitrio», ma non ne ha nemmeno fatto alcun cenno.
8) – Corano, XXXVI, 82.
9) – Matteo, VI, 24.
La «verticalità» della trascendente Misericordia e l’«orizzontalità» dell’immanente Compassione ci conducono alla considerazione della teoria dei tre guna, cui abbiamo accennato sopra, custodita dalla Tradizione indù.
Ma prima vogliamo esprimere ancora qualcosa in merito alla volontà e quindi all’intenzione proprie dell’individuo in quanto tale. Conveniamo sulla loro relativa necessità e sul loro «valore» riguardo alle possibilità di avanzamento sulla via iniziatica; tali slanci (unitamente agli sforzi), tanto più se sinceri, sono propedeudici al fine del superamento di determinate limitazioni; ma, ci si può pur chiedere: sono, in quanto individuali, realmente sufficienti al fine della realizzazione iniziatica?
Per trarre un esempio dalle qualità innate, un individuo «stonato» e «deritmato» potrà assiduamente frequentare le più qualificate scuole di canto e i più prestigiosi istituti musicali, ma tale rimarrà nonostante tutti i possibili sforzi profusi al fine di eseguire la corretta sequenza armonica di poche note.
Altra domanda: le cose stanno incontrovertibilmente così?
Niente affatto. Il monumentale episodio accaduto a San Paolo (ex uccisore di credenti), è più che illuminante al riguardo; per non dire di fatti analoghi occorsi ad altri giganti della Fede, quali, per citarne alcuni, Francesco d’Assisi, il Beato Scammacca e lo stesso Milarepa.
Il potentissimo Ricordo di chi in realtà è l’uomo, può invincibilmente irrompere nell’istante unico della simultaneità; «Il morso del Drago non perdona!». La soverchiante nostalgia del «Giorno di Alastu» (10) sbaraglia in un sol colpo (come Alessandro recise il «nodo gordiano») tutte le oscure brume della notte! Allora l’uomo si risveglia «prima di morire», così come riporta uno hadîth del «Sigillo della Profezia».
«Chi può dunque appendere il sonaglio al collo del gatto?», disse il saggio topo.
Riguardo all’uomo, Iddio Altissimo dice: «Noi siamo a lui più vicini della sua stessa vena giugulare». (11)
Il Cristo dice: «Il Regno di Dio è dentro di voi». (12)
Inoltre, «Se [Iddio] vi abbandona, chi vi potrà aiutare?». (13)
«Non sanno forse [gli uomini] che Iddio concede a chi vuole e a chi vuole lesina? In ciò vi sono segni per coloro che credono». (14)
«Per coloro che credono». Ossia per coloro i quali, per la Sua infinita misericordia, ricevono la Grazia della vera Fede nel loro Signore, cioè confidano in Lui e a Lui si affidano, «come foglie morte». Allora l’uomo, per «Grazia ricevuta», pone se stesso nelle mani della Sua Provvidenza che, pertanto, «provvede».
L’uomo, quale «figliol prodigo», preso atto della sua impotenza e della sua povertà di fronte al Principio Supremo, sa di non poter fidare in altri che non sia il suo Signore. Allora da Lui si fa «cuocere», ed ebbro della Sua Misericordia, a Lui si rivolge, con le Sue sacre Parole: «Il mio successo è soltanto in Dio, in Lui confido e a Lui ritornerò». (15)
«Chi vuol essere lieto sia»! Così indicò Lorenzo il Magnifico.
10) – Cfr. Corano, VII, 172.
11) – Idem, L, 16.
12) – Luca, XVII, 21.
13) – Corano, III, 160.
14) – Corano, XXXIX, 52.
15) – Corano, XI, 88.
La parola a René Guénon: «La metafisica è essenzialmente la conoscenza dell’universale, o, se si vuole, dei princìpi d’ordine universale, ai quali soli conviene del resto propriamente il nome di princìpi; non vogliamo però dare con ciò una vera e propria definizione della metafisica, cosa che sarebbe rigorosamente impossibile proprio a causa di quell’universalità che noi consideriamo il primo dei suoi caratteri, dal quale tutti gli altri discendono.
In realtà non è definibile se non ciò che è limitato, e la metafisica è al contrario, nella sua essenza stessa, assolutamente illimitata, ciò che non permette evidentemente di racchiuderne la nozione in una formula più o meno restrittiva; in questo caso una definizione sarebbe tanto più inesatta quanto più ci si sforzasse di renderla precisa.
Il dominio proprio di ogni scienza è sempre circoscritto dall’esperienza, nell’una o nell’altra delle sue diverse modalità, mentre quello della metafisica è costituito essenzialmente da ciò di cui non si può avere esperienza: essendo «al di là della fisica», si è anche, proprio per questa ragione, di là dell’esperienza». (16)
Come ci è occorso esprimere in altre occasioni, la pupilla dell’occhio vede tutto, ma l’occhio non vede la sua propria pupilla.
«Per provare metafisicamente la libertà non è affatto necessario preoccuparsi dei vari argomenti filosofici, ed è invece sufficiente stabilire che essa è una possibilità, dal momento che il possibile ed il reale sono metafisicamente identici.
[...] La libertà assoluta non può realizzarsi che attraverso la completa universalizzazione: essa sarà «auto-determinazione» in quanto coestensiva all’Essere, e «indeterminazione» al di là dell’Essere. Mentre ad ogni essere è propria una certa libertà relativa in qualunque condizione si trovi, la libertà assoluta non può appartenere che all’essere liberato dalle condizioni di esistenza manifestata, individuale o anche sopra-individuale, e divenuto assolutamente «uno», al grado dell’Essere puro, o «sena dualità» se la sua realizzazione va ancora oltre l’Essere.
In questo caso, e solo in questo caso, si può parlare dell’essere «che è legge a se stesso», poiché quest’essere è perfettamente identico alla sua ragion sufficiente, che è la sua origine principiale ed anche il suo destino finale».
Forse che il cuore dell’uomo si dà al «libero arbitrio»?
Quanto all’individuo in quanto tale, egli non è affatto «libero» di «arbitrare» su nessun attimo della propria esistenza e, ci sia consentita l’espressione, soprattutto allorquando deve correre onde attendere a certe irrinunciabili necessità!
Vincit Omnia Veritas.
16) – Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Parte II, Cap. V.
17) – Gli stati molteplici dell’essere, Cap. 18.