Salvandosi dal ‘gorgo’ della folta narrativa a sfondo esoterico - che spesso mescola in un unico e scriteriato calderone magia, Chiesa Cattolica, servizi segreti, massoneria e quant’altro - vi è per fortuna chi riesce a trattare questi intriganti temi con gusto e soprattutto con ricostruzioni storicamente plausibili, necessarie quando ci si misura con personaggi e situazioni reali.
E’ il caso dello scrittore americano Nathan Gelbche nel suo ultimo libro, uscito il 7 ottobre e intitolato “Delitti sotto la cenere” (Sperling & Kupfer editore), narra una nuova avvincente avventura che ha per protagonista il settecentescoPrincipe di Sansevero, ossia Raimondo de’ Sangro alchimista, scienziato e massone di origine pugliese realmente esistito, con tanto di fastoso palazzo a Napoli in piazza San Domenico Maggiore (oggi al civico 9).
Dopo il primo libro di Gelb, “Il quadro dei delitti’ (2007), nel quale già lo si vedeva alle prese con crimini efferati in veste di ‘detector’ in un romanzo d’esordio di grande fascino ambientato tra la Roma papalina e la Bretagna di Luigi XV, il Principe di Sansevero deve ora misurarsi con un truce delitto che ha come teatro un tempio massonico, il cenacolo di libero pensiero che egli continua a celare nel suo stesso palazzo nonostante l’apparente abiura a cui tempo prima era stato costretto dalle autorità.
Un uomo e una donna vi sono rinvenuti inceneriti, tranne il volto e gli arti.
Autocombustione o omicidio? E in quest’ultimo caso, quale sarà stato il movente? Una vendetta contro il Principe o altro? Tutto rende fosca e intricata la vicenda: dal ritrovamento di un granchio di mare sul pavimento del tempio, alle note ossessive e misteriose, che irrompono non si sa da dove, di un madrigale di Gesualdo da Venosa, musicista del ‘500 che in quello stesso luogo due secoli prima aveva trucidato la moglie Maria d’Avalos e il suo amante Fabrizio Carafa.
Il caso si dipana così tra molteplici personaggi, situazioni, colpi di scena e soprattutto altri terribili omicidi mentre Raimondo, affiancato dalla sua amante - una dotta e sagace Mariangiola Ardinghelli del cui rapporto intimo col Principe lo scrittore ha trovato indizi lampanti in inediti documenti del '700 - tenta di confutare le credenze dell’epoca sulla autocombustione umana, via via che il complesso enigma comincia a rivelare gli angosciosi contorni di una matrice tutta umana.
Un intreccio di grande originalità, ricco di vicende collaterali e di personaggi ben tratteggiati psicologicamente, che Gelb è riuscito a sviluppare col giusto ritmo senza renderlo inutilmente farraginoso, scritto con attenta cura e capace di catturare senza tregua l’attenzione del lettore.
L’altro dato rilevante, che ridona dignità letteraria ad un genere troppo spesso praticato da scrittori ‘da supermarket’ attenti solo a fare cassetta, è la grande padronanza della lingua italiana nella quale il romanzo è stato elaborato, cosa piuttosto rara per uno scrittore straniero.
Del tutto normale invece per il coltissimo Gelb che, nato 46 anni fa a Chicago da una prestigiosa dinastia di librai antiquari di Dresda, parla 4 lingue ed ha appreso il nostro idioma sin da bambino sotto la guida della nonna Rebecca, di Firenze.
Una lingua che nel romanzo si fa equilibratamente forbita e all’occorrenza popolare, dotata dei giusti arcaismi per rendere credibili i dialoghi in un’epoca così lontana.
Ma veniamo al ‘nostro’ principe pugliese, Raimondo de’Sangro.
"Chimico e matematico" si legge sulla lapide viaria a lui intitolata che fa mostra di sé nella piazza principale di Torremaggiore (Foggia), città dove nacque nel 1710, per diversi secoli feudo ducale dei signori di Sangro, dal 1579 anche principi di Sansevero, Grandi di Spagna, proprietari anche di altri feudi dell'area pugliese (Sansevero, Castelnuovo, Casalvecchio di Puglia, Castelfranco ed altri minori) e, attraverso Oderisio conte di Sangro, discendenti direttamente da Carlo Magno.
In realtà la sua è una figura molto complessa, a tratti sfuggente.
Formatosi sin da giovanissimo alla scuola dei Gesuiti di Roma, acquisì un tale superiore sapere da tracciare un profondo solco tra sé e il mondo aristocratico dell’epoca, spesso insulso.
Fu scienziato, esoterista, militare, letterato, conoscitore di diverse lingue straniere e antiche tra cui l’ebraico, corrispondente con alcune delle più illustri menti della cultura europea e inventore di grande originalità: alcune fonti scritte e la tradizione popolare, che a tratti lo investì anche di capacità diaboliche, gli attribuiscono l’invenzione di un lume eterno, di stoffe e vernici speciali, della cera fatta senza api, della tecnica per rendere potabile l’acqua marina, di una carrozza anfibia, la scoperta della radioattività naturale due secoli prima dei coniugi Curie (il ‘raggio attivo’, come lo definiva, da lui ricondotto alla ‘pechblenda’, un minerale da cui i Curie avrebbero isolato il radio), del suo effetto letale sui viventi e della possibilità di schermarlo col piombo.
Ma senza dubbio il lascito più affascinante ed enigmatico del Sansevero rimane il ciclo di sculture ancor oggi visitabili a Napoli nella cappella gentilizia, a pochi metri dal suo palazzo.
In particolare sono sensazionali il Cristo Velato, il Disinganno e la Pudicizia, opere realizzate da scultori conosciuti, ma dotate di virtuosismi tecnico-artistici, ricchi di valori simbolici, che si è scoperto essere opera del Principe.
In Puglia si è tornato a parlare del Principe proprio lo scorso anno a Taranto, nel corso di una conferenza che ha ospitato esponenti di rilievo della massoneria, saggisti, storici dell’arte e l’autore del libro ‘Il Principe e il Mago’, ossia Alessandro d’Aquino di Caramanico, discendente del Sansevero ma anche della famiglia d’Aquino, originaria di Taranto.
Il Sansevero del romanzo è un personaggio geniale dipinto, senza irriverenza, con aspetti caratteriali a volte un po’ istrionici, come di chi quasi si diverte con ironia ad assecondare l’idea leggendaria che il popolino si è fatta di lui ma che non rinuncia nella vita, nei suoi studi e nella sua attività ufficiosa di ‘detector’ ad applicare i parametri ferrei della logica, sia pure una logica del tutto speciale che non si nutre solo di razionalismo ma attinge ai territori della sapiente intuizione, di una sorvegliata ipersensibilità ai limiti della chiaroveggenza.
Del resto non c’è da stupirsene visto che accanto agli studi di taglio scientifico - all’avanguardia per l’epoca - il Sansevero storico navigava nei territori misteriosi dell’ermetismo e della sapienza spirituale iniziatica, con esiti di cui non conosceremo mai la reale portata.
Il romanzo peraltro ce ne mostra anche i lati profondamente umani che rendono il personaggio ancora più accattivante.
Suggestivo e realistico anche l’affresco nel quale Nathan Gelb, attraverso una mirabile fusione di storia e fiction, ha reso i luoghi e le atmosfere della Napoli settecentesca, la sua anima caleidoscopica e ambigua di città sfarzosa e stracciona al tempo stesso, quale certamente essa allora fu e in parte ancora è.
Città capitale di un Regno, luogo di ‘delizie’ per nobili, scrigno di un’anima popolare ‘teatrale’ e di grande umanità, ma anche postribolare rifugio della peggiore fauna umana.
Insomma uno spaccato di quel ‘paradiso abitato da diavoli’ di crociana memoria, offerto da un libro di 500 pagine suggestive (costellate di splendide incisioni d'epoca) che inchiodando il lettore scorrono rapidamente verso la sorprendente soluzione del caso.
di Enzo Garofalo su http://www.cannibali.it/leggi.php?i=397&c=2&n=1